Il tumore della prostata è la forma più diffusa di carcinoma nella popolazione maschile: rappresenta circa il 18% di tutti i tumori diagnosticati nell’uomo, con 36.074 nuovi casi all’anno (dati aggiornati al 2020). Nonostante si parli di una patologia relativamente diffusa, nella maggior parte dei casi la sua diagnosi è incidentale (nei pazienti che effettuano la prevenzione grazie al dosaggio di PSA, l’antigene prostatico specifico) e i tassi di sopravvivenza a cinque e a dieci anni superano il 90%. Al giorno d’oggi, di fronte a un adenocarcinoma prostatico l’urologo e il paziente hanno a disposizione ben più di una scelta terapeutica potendo ricorrere sia a trattamenti radicali, come chirurgia e radioterapia, che alla possibilità di avviare un protocollo di sorveglianza attiva, cioè un calendario standardizzato di controlli.

Qual è il migliore trattamento per il tumore della prostata?

Ma, qual è il trattamento migliore per il tumore della prostata? È sempre giusto agire attivamente? Le risposte a queste domande possono essere molto complesse, dipendendo da numerosi fattori associati al paziente e alla malattia.
Ciò che oggi sappiamo sulla gestione del tumore prostatico localizzato è in larga parte dovuto a un importante studio pubblicato per la prima volta sul New England Journal of Medicine nel 2016: lo studio ProtecT. Tra il 1999 e il 2008, 82.429 uomini tra i 50 e i 69 anni si sottoposero a un dosaggio del PSA; tra questi, 2.664 ricevettero la diagnosi di tumore localizzato della prostata e 1.643 di loro vennero arruolati in uno studio che mirava a valutare l’efficacia relativa dei tre differenti approcci terapeutici disponibili: prostatectomia radicale, radioterapia o sorveglianza attiva.
Oggi, a 15 anni dalla fine dell’arruolamento, possiamo valutare i risultati di quest’impresa titanica: i dati ci mostrano una sopravvivenza relativa al tumore della prostata del 97.2%, senza forti differenze tra i tre gruppi. L’incidenza di metastasi è stata del 9.4% nel gruppo della sorveglianza attiva, e di circa la metà negli altri gruppi. Alla fine del periodo di osservazione, inoltre, il 61% dei pazienti che erano stati arruolati nel braccio della sorveglianza attiva erano stati sottoposti a prostatectomia o radioterapia.
Gli Autori concludono il loro lavoro affermando che la scelta della corretta terapia per il carcinoma prostatico localizzato debba essere basata su un’attenta valutazione dei rischi e dei benefici di ciascun approccio. Se da un lato i dati dimostrano una maggiore incidenza di metastasi nei pazienti sottoposti a sorveglianza, dall’altro questo dato non sembra influenzare pesantemente la sopravvivenza. D’altro canto, prostatectomia radicale e radioterapia si associano a rischi di progressione e metastatizzazione inferiori, ma possono essere associati a effetti negativi sulla sfera sessuale e sulla continenza urinaria. La gestione di un carcinoma prostatico localizzato, quindi, non può essere decisa solo dal medico, ma deve essere il risultato di una dettagliata discussione con il paziente, in cui questi prende coscienza delle possibili terapie e soprattutto delle loro conseguenze.
Nonostante l’importanza clinica dello studio ProtecT, non bisogna mai dimenticare che si tratta di una coorte di pazienti arruolata ormai più di 15 anni fa, periodo durante il quale il mondo dell’urologia ha visto un importante avanzamento tecnologico e il susseguirsi di metodiche diagnostiche sempre più innovative e precise: la risonanza magnetica prostatica multiparametrica (che non viene considerata nella sorveglianza attiva del ProtecT trial), la PET-PSMA, l’affinarsi di tecniche di chirurgia robotica sempre più precise e conservative. Con le attuali conoscenze, la stragrande maggioranza dei pazienti dello studio ProtecT verrebbe oggi considerata candidabile a una sorveglianza attiva e il maggior numero di metastasi osservate nel gruppo della sorveglianza attiva sarebbe sensibilmente ridotto con l’ausilio delle moderne tecnologie.

Per fortuna, rispetto al 1999, oggi il concetto di sorveglianza attiva è fermamente entrato a far parte della pratica clinica e sono molti i pazienti che accettano di intraprendere questo percorso. Non bisogna mai dimenticare, inoltre, il peso psicologico di una diagnosi di tumore: molti pazienti potrebbero essere comprensibilmente preoccupati o angosciati dall’idea di avere un carcinoma con un rischio, seppur basso, di progressione e di conseguenza potrebbero non voler intraprendere un percorso di sorveglianza. In questo caso un attento e delicato colloquio tra medico e assistito potrebbe fugare ogni dubbio.

Anche dopo 15 anni, lo studio ProtecT rappresenta uno dei capisaldi nella gestione del carcinoma prostatico, avendo, di fatto, definito l’attuale linea di gestione di questa patologia. Pur con tutti i suoi limiti, rimane ancora oggi un’impresa notevole sia in termini di pazienti coinvolti che per quanto riguarda l’impatto che esso ha avuto sulla pratica clinica e rappresenterà sicuramente la base di molti studi futuri.

 

Bibliografia

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