Un recente sviluppo della ricerca sull’invecchiamento (o aging) in ambito psicologico riguarda il tipo di attenzione, di sguardo che le persone più giovani rivolgono alle persone più anziane e, soprattutto negli ultimi studi, in che modo queste ultime siano condizionate da questo sguardo, da questa modalità di attenzione.

Lo stereotipo che invecchiare sia sempre sinonimo di decadimento complessivo – inteso come crescente impedimento fisico, e talvolta anche come graduale declino delle funzioni cognitive dell’individuo – sembra influenzare l’autostima delle persone anziane, oltre che il vissuto sociale del processo di aging, con una ricaduta negativa sulla qualità dell’invecchiamento (successful aging) e, conseguentemente, sulla salute.

Di tutto ciò si occupa la “Stereotype Embodiment Theory” (o SET), una teoria psicologica formulata nel 2009 da Becca Levy, direttrice del dipartimento di scienze sociali e comportamentali della Scuola di Salute Pubblica della Yale University.

Vediamo di seguito di cosa si tratta, considerando anche i possibili sviluppi futuri, per una sempre maggiore comprensione delle variabili in gioco nel complesso rapporto fra invecchiamento e salute.

 

Come interiorizziamo gli stereotipi sull’età e l’invecchiamento

Gli stereotipi sull’età sono credenze riferite alle persone anziane intese come gruppo omogeneo e generalizzato (Levy, 2009). Ce ne sono alcuni positivi (per esempio, le persone anziane sono sagge), ma quelli negativi sembrano essere molto più numerosi e diffusi.

Alcuni ricercatori (Ng et al, 2015, Chung & Gill, 2015) hanno dimostrato come gli stereotipi negativi sull’età siano diventati predominanti con l’avvento della rivoluzione industriale, ovvero dal 1810 in poi. Tuttavia la storia della letteratura è piena di esempi legati agli stereotipi negativi sull’età che avanza; basti ricordare, fra gli altri, ciò che scrive il commediografo romano Terenzio in proposito: “La vecchiaia è di per sé una malattia” (“Senectus ipsa est morbus”).

La convinzione che cominciamo a interiorizzare dalla prima infanzia è che il processo di invecchiamento porti con sé, inevitabilmente, disturbi e malattie che ci rendono più fragili, meno efficienti, meno produttivi – in una parola, “inutili”.

Questa convinzione (infondata) innesca un circolo vizioso: è la stessa persona anziana che comincia ad autovalutarsi come inefficiente e non si sente più in grado di assumersi alcun impegno duraturo. Si “tira indietro” davanti a nuove sfide, ma non per una scelta fondata sulla delega del compito e sull’esercizio di un coordinamento proprio in forza di una maggiore esperienza, ma sull’idea di non farcela.

È solo l’inizio di un percorso che può diventare autodistruttivo: la persona comincerà a muoversi di meno, e gradualmente svilupperà un atteggiamento mentale meno attivo, meno curioso, meno interessato agli altri. Per usare un’immagine comune, “tirerà i remi in barca”, e si comporterà come previsto dallo stereotipo interiorizzato della vecchiaia: nel migliore dei casi, con passiva rassegnazione di fronte all’inevitabile destino, e nel peggiore favorendo inconsciamente l’avvio di processi infiammatori che possono aprire la strada a svariati disturbi dei sistemi metabolico, neurologico e cardiocircolatorio.

 

Gli effetti degli stereotipi sull’età per la salute

La persona che vive su di sé lo stereotipo negativo dell’età che avanza, e “incarna” (embodies) il pregiudizio sociale che la percepisce come fragile e improduttiva, tende a comportarsi di conseguenza: esce di meno, trascura sé stessa e le relazioni umane, diventa a sua volta meno interessante, meno attraente.

Si innesca così una catena di eventi, il cui esito generalmente è il peggioramento dello stato di salute della persona anziana: essendo più annoiata, più sola e demotivata, può cercare gratificazione nel cibo, favorendo l’ingrassamento e l’obesità, che a loro volta vanno a braccetto con la sedentarietà. Tutto ciò può condurre a una maggiore fragilità ossea con l’aumento del rischio di fratture, diabete mellito di tipo 2, e malattie vascolari e cardiocircolatorie. Infine, i ridotti stimoli mentali e l’assenza di movimento fisico possono portare a disturbi del sonno, depressione, decadimento cognitivo e, in alcuni casi, anticipare alcune forme di demenza.

Gli esperimenti condotti da Levy su gruppi di persone anziane, iniziati alla fine degli anni ‘90 e proseguiti nei decenni successivi alla formulazione della teoria nel 2009, hanno consentito di scoprire quanto lo stereotipo sull’invecchiamento possa influenzare la funzionalità dell’individuo e il suo grado di autonomia, secondo le tre variabili fisiologica, psicologica e comportamentale. Levy considera ad esempio la funzione del movimento, inteso sia come mobilità fisica – l’azione del camminare, sia come mobilità fine – scrivere a mano.

Dalla sperimentazione è emerso che le persone inserite nei gruppi in cui gli stereotipi sull’età anziana erano positivi e incoraggianti si muovevano con maggiore autonomia, ed erano in grado di scrivere in modo più fermo e leggibile. Al contrario, le persone inserite nei gruppi in cui predominava uno stereotipo negativo sulla vecchiaia mostravano maggiore difficoltà a muoversi, e scrivevano con una grafia più piccola, incerta, e più difficile da interpretare.

 

Conclusione

La SET ha dimostrato che gli stereotipi interiorizzati dall’infanzia, all’interno dei propri gruppi familiari e culturali, possono influenzare in modo determinante e continuo il processo di aging, e sono in grado di peggiorare o migliorare lo stato di salute della persona.

La futura ricerca sperimentale potrà utilizzare un approccio multisettoriale, indagando più approfonditamente la relazione fra stereotipi e gruppi predefiniti sulla base dell’età e del genere, della provenienza geografica, etnica e sociale, per osservare il peso di queste variabili rispetto al grado di resistenza della persona agli stereotipi sulla vecchiaia, e relativo stigma sociale.

È convinzione dei ricercatori che anche i più piccoli cambiamenti nell’atteggiamento culturale all’interno delle comunità possano accrescere la consapevolezza di tutti sulle conseguenze negative degli stereotipi sull’età, ma che per raggiungere questo obiettivo occorra la piena collaborazione fra i diversi soggetti – politici, educativi, economici e sanitari.

A cura di Patrizia Salvaterra

 

Bibliografia

 


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