Per Simone Pollo, professore associato di filosofia morale della Sapienza Università di Roma, il processo di invecchiamento è qualcosa di inedito nella storia dell’umanità: non solo rappresenta una sfida per la medicina e le scienze della vita, ma anche una condizione che va completamente ripensata.

Perché invecchiamo? È questa la domanda che anima il dibattito della nostra rubrica sulle teorie dell’invecchiamento e che ci pone spesso ai confini della ricerca in questo ambito. E proprio perché ci troviamo in questa posizione, di volta in volta poniamo lo stesso quesito a tutti coloro che, per motivi professionali o di studio, si accostano alla nostra soglia. Questa volta è il turno di Simone Pollo, professore associato di filosofia morale del Dipartimento di Filosofia della Sapienza-Università di Roma, dove insegna etica e scienze del vivente.

Professor Pollo, cominciamo subito con la domanda delle domande: perché invecchiamo? In particolare, dal punto di vista della teoria evoluzionistica, che senso ha il processo di invecchiamento?

Comincerei facendo un paio di premesse: sono un filosofo morale con profondo interesse nella filosofia della biologia, ma non sono un biologo, quindi su questo tema le mie risposte potranno essere più generali. Innanzitutto, mi preme sottolineare che se noi vedessimo le cose esclusivamente dal punto di vista della teoria dell’evoluzione, niente avrebbe senso, inteso qui come significato che abbia valore per le nostre convinzioni morali, le nostre idee politiche, i nostri valori e via dicendo. Se invece con il termine ‘senso’ intendiamo il modo in cui spieghiamo l’invecchiamento all’interno della teoria dell’evoluzione, allora si possono avanzare varie spiegazioni, nonostante il fatto che non siamo arrivati – e probabilmente non arriveremo mai – a conclusioni definitive.

Una spiegazione classica è quella secondo cui i processi della selezione naturale non sono riusciti a intervenire su quei meccanismi che presiedono all’invecchiamento, semplicemente perché la selezione naturale agisce prima che quei meccanismi si mettano in opera. In altre parole, l’invecchiamento subentra, sia negli esseri umani sia negli animali, quando essi si sono già riprodotti e pertanto non può intervenire sulla fitness, ciò sull’adattamento all’ambiente. Viene a crearsi così una sorta di zona d’ombra nella quale la selezione naturale non opera.

Ma le cose in futuro potrebbero cambiare: dal momento che oggi le persone, almeno quelle delle società occidentali, si riproducono più tardi rispetto a un tempo, a un certo punto (con i tempi dell’evoluzione, che possono essere estremamente lunghi) potrebbe instaurarsi un qualche tipo di selezione che va a premiare gli individui che hanno una minore predisposizione all’invecchiamento. Ciò potrebbe determinare che la vita media si allunghi e che l’invecchiamento diventi, da un punto di vista biologico, qualcosa di diverso da quello che è ora.

E quindi in che cosa consisterebbe il contributo dell’evoluzionismo alla comprensione dell’invecchiamento?

Dal punto di vista dell’evoluzione, l’invecchiamento è qualcosa che accade per meccanismi specifici. Noi tendiamo a cercare uno scopo a tutto e quindi ci chiediamo: perché invecchiamo? Qual è il significato dell’invecchiamento? L’evoluzione, invece, ci fa vedere che questo significato non c’è, e quindi ci propone un livello di spiegazione che è a suo modo controintuitivo. Quindi, possiamo dire che l’invecchiamento è un buon caso di studio per spiegare quella che è in generale una comprensione evoluzionistica della vita: ci sono meccanismi profondi che guidano le nostre vite in quanto animali di una particolare specie, i quali spesso vanno contro le nostre intuizioni di senso comune, che invece ci impongono di dare un fine ultimo a tutto.

Parlando di invecchiamento ed evoluzione, sono state le società a costituire un fattore evolutivo molto importante per gli esseri umani. E all’interno della società le persone anziane erano anche quelle responsabili del trasferimento della conoscenza. In questa dimensione sociale e culturale, si può trovare un senso più specifico all’invecchiamento?

Pur mantenendo un certo distacco dal termine “senso”, sicuramente quel che dite è vero. I processi che hanno portato nella specie umana a un allungamento della vita media sono stati alcuni dei fattori derivanti dall’accelerazione culturale delle società umane. Ad esempio, il miglioramento delle condizioni di vita, che ha contribuito all’allungamento della vita media e instaurato un circolo che ad oggi è pienamente integrato nelle nostre società: in sostanza, oggi si invecchia molto più di un tempo. Noi tendiamo a pensare che tutta questa grande quota di persone anziane della nostra società (e ancora una volta parliamo di società occidentali dove ci sono anche politiche di welfare) siano un onere finanziario, però non dobbiamo dimenticare che tutte queste persone sono state produttive fino a qualche tempo fa e sono anche quelle che hanno in qualche modo consentito la crescita economica delle società in cui viviamo.

Essere anziani in una società in cui si lavora fino ai 65-70 anni vuol dire dare un contributo produttivo alla società per moltissimi anni. Bisogna considerare anche l’altro lato della medaglia: siamo una società in cui ci sono sempre meno nuovi nati. Non ritengo che il decremento della natalità sia da attribuire all’invecchiamento e all’allungamento della vita, quanto al livello maggiore di istruzione e ricchezza della società, come afferma anche il filosofo ed economista Amartya Sen.

Stiamo assistendo ad una ridefinizione del significato di essere anziani, in termini di aspettativa di vita, ad esempio, di come si vuole vivere l’ultima fase della propria vita. Eppure, in generale, si vive di più ma si vive peggio: soprattutto nei paesi occidentali, la fragilità sembra essere endemica.

Spesso tendiamo a dimenticarcelo, ma siamo esseri biologici, sui quali agiscono e sono sempre all’opera i naturali meccanismi dell’evoluzione. Pertanto, una delle conseguenze dell’allungamento dei processi della vita è l’allungamento anche dei processi di invecchiamento.

Non solo: oggi gli esseri umani sperimentano una parte della loro forma di vita in modi che sono del tutto inediti per quella che è la storia della nostra specie, in quanto, fino a pochi anni fa, pochissimi esseri umani potevano invecchiare fino ad arrivare a ottant’anni o più. E la cosa continuerà con quei soliti meccanismi che, come dicevamo all’inizio, la selezione naturale non ha ancora incontrato, almeno per la gran parte della storia della nostra specie. Ciò rappresenta sicuramente una novità, sia biologica sia culturale: gestire l’invecchiamento è qualcosa che stiamo imparando a fare da poco tempo. “Poco” intendo per quelli che sono i tempi lunghissimi dell’evoluzione biologica, ma anche per quelli dell’evoluzione culturale.

Quindi, all’interno della prospettiva delle persone fortunate che vivono nel mondo avanzato, è vero che le nostre società possono e devono fare molto di più per gli anziani, ma è anche vero che quello che le nostre società stanno facendo per le persone anziane, così come per le persone disabili e le persone malate, è senza precedenti nella storia degli esseri umani.
L’invecchiamento diventa allora, sia a livello individuale sia a livello sociale, una fase di vita che va pensata, ma che in qualche modo la nostra tradizione non ci ha abituato a pensare.

Questo sembrerebbe valere anche per come si decide di terminare la propria vita.

Questa è un’altra novità. Per la prima volta, ormai da qualche decennio a questa parte, le persone hanno la possibilità di chiedersi come finire la propria vita, dal momento che la morte non è quasi più un evento puntiforme come lo era in passato. Chi arriva a una certa età, in genere, ha un processo del morire: infatti oggi, non a caso, non si tende a parlare più di morte, ma di fine-vita, un processo che a volte può avere tempi molto lunghi e conseguenze sull’individuo che non tutti riescono a tollerare. E da qui si apre una seria questione che deve essere ben riflettuta, e che ha a che fare con le questioni classiche della bioetica, laddove questo processo del finire della vita abbia dei pesi intollerabili dal punto di vista di dolore e sofferenza, ma non solo.

Una persona può voler vivere la propria vita fino alla fine con una certa quantità di autonomia, di autodeterminazione, di possibilità di soddisfare una serie di desideri, che invece certe condizioni di salute fisica e mentale non consentirebbero. E così siamo abituati a pensare che il suicidio assistito e l’eutanasia siano scelte che riguardano le persone malate terminali, cioè persone che hanno un’aspettativa di vita molto breve, che sono in condizioni di sofferenza e che quindi desiderano porre termine alla propria vita. Ma in realtà, come già sta accadendo in Paesi dove l’eutanasia e il suicidio assistito sono stati riconosciuti legalmente da più tempo, la questione si allarga anche alle persone che arrivano a una condizione che non è necessariamente terminale, o di insopportabile sofferenza, ma che può essere considerata non più tollerabile dal punto di vista del significato personale che ognuno dà alla propria esistenza.

E questa non potrebbe essere vista come un’estremizzazione?

Non credo: è normale poter decidere di congedarsi dal mondo, arrivati a una certa età, senza magari lo spettro di andare incontro a una situazione patologica gravemente invalidante, la quale farebbe terminare in modo intollerabile una vita che altrimenti verrebbe considerata piena e soddisfacente. Non sto dicendo che questa è una scelta che tutti dovrebbero fare, ma sostengo la necessità di riconoscere il diritto degli individui di gestire il proprio fine vita. Se intendiamo l’invecchiamento come quella condizione di essere anziani per molti anni, dobbiamo allora riconoscere che essa rappresenta una forma di vita che conosciamo ancora poco. Si apre così uno spazio che – fino a non molto tempo fa – non era né vissuto né concettualizzato.

A proposito di forme inedite e impensate di fine-vita, ci sono alcuni fautori del cosiddetto transumanismo, per i quali prolungare la vita ancora più a lungo e ricercare l’immortalità non costituirebbero più un’utopia.

Per quanto riguarda la prospettiva transumanista, personalmente vedo due possibilità: una è quella della trasformazione della condizione umana nella direzione di un ridimensionamento e di una marginalizzazione del corpo; l’altra è la direzione del superamento dei limiti imposti dalla vita biologica e, di conseguenza, l’inseguimento dell’immortalità. Sono due questioni che si intrecciano, ma sono anche diverse. Intanto, anche in questo caso, farei una premessa: ho una personale diffidenza verso qualsiasi approccio filosofico o culturale in genere, che in qualche misura ambisce a sbarazzarsi dei vincoli biologici. Stiamo ragionando – bisogna riconoscerlo! – su qualcosa che è puramente un esperimento mentale, nel senso che, al momento attuale, la nostra forma di vita umana è una forma di vita biologica (e per biologico si intende anche la coscienza e gli aspetti affettivi, cognitivi, eccetera, che sono quelli che producono anche la cultura). Tutto questo costituisce un fatto che non è smentibile in alcun modo. Lo sarà in futuro? Non lo sappiamo.

E per quanto riguarda l’immortalità?

La nostra vita media rispetto a pochi anni fa si è allungata in maniera sostanziale e magari la medicina sarà in grado di rinnovare costantemente il nostro corpo, fino a ottenere, se non l’immortalità, almeno, forse, una continuazione indefinita. Quindi, un ulteriore sostanziale allungamento della vita è qualcosa che potrebbe realizzarsi. Il punto è chiedersi se sia qualcosa di desiderabile. Su questo punto c’è chi ci ha ragionato in maniera illuminante, a mio avviso. Ad esempio, un importante filosofo del Novecento, Bernard Williams, ha scritto un saggio dal titolo Il Caso Makropulos. Riflessioni sul tedio dell’Immortalità, che prende spunto dall’omonima pièce teatrale di Karel Čapek, nella quale c’è una donna che a un certo punto ottiene una sorta di elisir di lunga vita, di immortalità. Williams ragiona su questo fatto, concludendo che la prospettiva di una non conclusione della nostra vita in realtà avrebbe come effetto quello della perdita di senso della vita stessa.

In effetti, osservando le nostre esistenze, ciò che rende davvero significativi i nostri piani e dona importanza alle attività che svolgiamo, ai propositi che meditiamo, ai desideri stessi che nutriamo, è proprio il nostro orizzonte temporale limitato. Avere un orizzonte indefinito, invece, secondo Williams, farebbe perdere significato a tutta l’esperienza della vita.

A cura di Emiliano Loria e Chiara Di Lucente


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