Il tema della religione, e quello correlato della spiritualità, sono diventati di crescente interesse per i gerontologi del XXI secolo, e gli studi prodotti negli ultimi decenni forniscono spunti importanti per una sistematica teorizzazione focalizzata sull’impatto delle credenze religiose nell’invecchiamento sano.

Le teorie che mettono in relazione credenze religiose e longevità trovano linfa e fondamento da ricerche sperimentali come lo studio di Coin et al. (2010), condotto su un campione di anziani italiani affetti da demenza. I ricercatori hanno riscontrato che, nell’arco di 12 mesi, rispetto alle persone raggruppate secondo un alto indice di ‘religiosità’ (misura ottenuta in base alla maggiore frequenza di partecipazione ad attività religiose), le persone con basso indice di ‘religiosità’ mostravano un maggiore declino cognitivo (misurato attraverso il Minimal Mental State Evaluation – MMSE) e maggiori disturbi comportamentali (misurati dal Neuropsychiatric Inventory). Questo studio ha anche evidenziato che, nello stesso periodo, i caregiver di pazienti con un basso livello di religiosità mostravano un maggiore carico e disagio rispetto ai caregiver di pazienti con un alto livello di religiosità.
Si ipotizza, quindi, che le attività religiose possano essere cognitivamente stimolanti in diversi modi; ad esempio incoraggiando attività mentali come concentrazione, introspezione, meditazione, pensiero astratto ed empatia.

Esiste ormai un significativo corpus di ricerche empiriche, condotte su campioni di credenti prevalentemente cristiani, che inducono a ritenere come diverse dimensioni del credo religioso possano avere un’influenza positiva sulla salute fisica e mentale. E ancor più nel contesto degli adulti più anziani. Alcuni dei risultati più sorprendenti mostrano come sia la partecipazione alle funzioni religiose, la pratica derivante dall’osservanza, quindi, ad essere associata a un minor rischio di depressione e distimia (particolarmente diffusa nell’anziano lontano ,o allontanato, dalle attività produttive), così come essa è associata a un aumento della qualità della vita, a una diminuzione del carico di stress e della ruminazione dei pensieri autoriferiti.
Come è possibile tutto questo?
La ricerca deve compiere altri importanti passi per inquadrare meglio questi risultati, ma si tenga in considerazione anche il fatto che l’osservanza dei riti religiosi comporta sempre una significativa socializzazione. Ciò chiama in causa un fattore che viene giudicato determinante per un invecchiamento sano: una assidua attività prosociale. Dei vantaggi di un atteggiamento prosociale abbiamo parlato anche in altre rubriche (vedi qui, ad esempio). Non vi è poi da sottovalutare neanche il fatto che, a proposito di buone pratiche e stili di vita, molti precetti religiosi, non solo quelli cristiani, scoraggiano abusi di cibo, alcool, fumo, e incoraggiano viceversa un impegno costante verso la comunità che – in termini meramente pratici – comporta un costante impegno fisico ed emotivo non indifferente.

Negli ultimi decenni del XX secolo, si è cominciato così a teorizzare esplicitamente questo segmento psicologico importante dell’aging: la maturazione di un atteggiamento spirituale nella terza età. Lars Tornstam ha introdotto il concetto di “gerotrascendenza” (Tornstam, 1994, 2005), sostenendo con forza l’importanza di un cammino spirituale in età avanzata.
Egli definisce la gerotrascendenza come un cambiamento di prospettiva da una visione materialistica e razionale della vita a una visione più universale e trascendente. Tale cambiamento porterebbe a un maggiore senso di affinità con la natura, con il passato della propria famiglia e della comunità, nonché con le generazioni future, consentendo l’emergere di desiderio di tranquillità e di un atteggiamento riflessivo, meditativo. Robert Atchley (2003, 2009) ha integrato gran parte di questa letteratura proponendo un modello di “saging” (termine coniato fondendo i termini spirituality e aging) in età avanzata, collegato alle fasi dell’invecchiamento; ne descrive proprio lo sviluppo dai 60 anni fin dopo gli ottanta. Tra le numerose guide nate intorno alla riscoperta della spiritualità in età avanzata, Contemplative Aging. A Way of Being in Later Life di Edmund Sherman (2010), si distingue anche per la notorietà dell’autore, esperto studioso dell’invecchiamento e dell’adattamento evolutivo. Sherman è stato uno dei primi a sottolineare l’importanza di maturare una “psicofilosofia”, un modo ponderato di pensare e sentire la vita che permetta alla persona di affrontare le sfide esistenziali della terza età.
Sono seguiti studi empirici che si sono focalizzati sulle funzioni psicologiche e sociali che l’osservanza di una fede religiosa promuove. Sedikides e Gebauer (2013) forniscono una serie di potenziali benefici che la fede religiosa offre all’individuo: miglioramento dell’autostima, una riduzione dell’incertezza e dello stress, nonché salde figure di riferimento che promuovono forme di attaccamento sicuro.
Avevamo avuto occasione di discutere delle traiettorie evolutive degli stili di attaccamento nella terza età (si veda qui). L’attaccamento è quel vincolo profondo e innato che si instaura tra il bambino e la sua principale figura di accudimento (abitualmente la madre), un vincolo che nasce dal bisogno di sicurezza del bambino. Si tratta di un legame che, da un punto di vista evolutivo, è fondamentale per garantire la sopravvivenza fisica e psichica. Per questo la figura di accudimento riveste un importante significato esistenziale. Il vincolo dell’attaccamento è così inteso, in psicodinamica, come sistema globale che interessa tutte le fasi della vita. In questa prospettiva, le iniziali esperienze di attaccamento influenzano profondamente la capacità futura dell’individuo di relazionarsi con sé e con gli altri, condizionando lo sviluppo della personalità che va ad associarsi ai diversi stili di attaccamento, sicuro, insicuro, o disorganizzato. I modelli relazionali interiorizzati nell’infanzia possono restare invariati ma anche mutare durante l’età adulta, grazie all’incontro con nuove figure di attaccamento: il coniuge, ad esempio. Nella vecchiaia, in solitudine, rimasti senza figli, perché assenti o lontani, o colpiti dalla morte del coniuge, nuove figure di riferimento, di guida, di attaccamento nel senso di accudimento (ma non di tipo materiale) possono essere i parroci, le figure spirituali della comunità, o Dio stesso. Basti pensare alla figura di Gesù, come essa è delineata nelle sacre scritture cristiane.
In un ampio studio prospettico, con una coorte di anziani americani, Brown, Nesse, House e Utz (2004) hanno individuato che l’esperienza del lutto coniugale può condurre a una maggiore frequenza dei luoghi di culto e a un aumento dell’importanza della fede religiosa come mezzo di compensazione e difesa dalla sofferenza del lutto. Nell’ambito della teoria dell’attaccamento, il lutto può essere considerato come una risposta alla separazione permanente da una figura di attaccamento e si ritiene che un lutto significativo, come la perdita del coniuge, porti a elaborare la ricerca di una nuova esperienza di attaccamento. Comportamenti religiosi come la preghiera e la frequentazione della chiesa possono essere visti come attività di ricerca della vicinanza della figura di attaccamento (Kirkpatrick, 2005).
Questo effetto lenitivo, diciamo così, del credere in Dio e frequentare i luoghi di culto è stato considerato particolarmente saliente in coloro che hanno uno stile di attaccamento insicuro. In tal senso, allora, pregare Dio può fornire sentimenti di sicurezza quotidiana (simile a una base sicura) e di protezione nei momenti di angoscia.

Le risultanze dello studio di Hayward e Krause (2013) ci consentono di approfondire i benefici psicologici derivanti dal particolare rapporto con la fede nella terza età. Secondo Hayward e Krause, non si è posta sufficiente attenzione al sentimento religioso quale fattore condizionante del, o comunque correlabile al, senso di controllo e sicurezza di sé, che inevitabilmente con l’avanzare dell’età diminuiscono – si precarizzano, verrebbe da dire prendendo in prestito un termine sociologico calzante. La fragilità cronica, che caratterizza la condizione dell’anziano, non si riferisce banalmente solo a una debolezza muscoloscheletrica, o a una particolare sensibilità ai virus, ma a una condizione esistenziale più generale di incertezza e di precarietà, che parte da limitazioni fisiche, psicologiche e cognitive recate dall’avanzamento dell’età e arriva a minare quella forza motivazionale di affrontare sfide e avversità della vita. Il senso di controllo sul mondo circostante si affievolisce e le risposte a questo cambiamento possono essere molteplici. L’autoisolamento, ad esempio, oppure in senso inverso, una pacificata rassegnazione e apertura al mondo entro i propri limiti di azione. E proprio in quest’ultima tipologia di reazione comportamentale che la credenza e la pratica religiosa sembrano svolgere un ruolo decisivo. La fede religiosa sembra in molti casi, infatti, rappresentare uno strumento di compensazione della perdita di controllo personale, perché il credente delega a Dio il controllo sulle sorti del proprio destino. Sarebbe, dunque, questo atto di remissione, per riprendere non a caso un termine liturgico, ad aiutare psicologicamente la persona. Almeno questo è quanto provano a mostrare Hayward e Krause nella loro indagine longitudinale durata 7 anni, che ha dato risultati in linea con questa ipotesi.

Fatto debito tesoro di questo incoraggiante stato dell’arte, riassunto e supportato da una considerevole bibliografia consultabile nel saggio di Coleman et al. (2016), possiamo più agevolmente sgombrare il campo dalla possibile confusione dei termini “religione” e “spiritualità” che abbiamo usato finora. Lungi dal considerarli sinonimi – sarebbe un errore concettuale, oltre che storico e antropologico – in questa particolare prospettiva teorica dell’aging possono essere considerati interscambiabili, a patto però che essi implichino un atteggiamento di profonda adesione a uno specifico sistema di credenze e una pratica (riti e tradizioni) a esse connesse.

In conclusione, al centro di questo modello teorico dei processi di invecchiamento, il conforto restituito dall’adesione a una fede religiosa sembra essere la parola chiave per perseguire un benessere psico-fisico nella terza età, a condizione, però, che vi sia una sincera adesione, un vero investimento nella credenza religiosa e nelle pratiche inclusive e prosociali che essa comporta.

 

A cura di Emiliano Loria

 

Bibliografia

In Bengston V.L. Settersten R.A. (eds), Handbook of Theories of Aging, Springer 2016.


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