Da anni il dibattito sul fine vita infiamma l’opinione pubblica e in Italia il quadro legislativo non è ancora completo, seppure solide basi siano state gettate. Per comprendere il cammino fatto dai casi eclatanti di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro alla situazione attuale, impostata dalla storica sentenza della Corte Costituzionale nel 2019, abbiamo bisogno di affidarci a una guida competente. L’intervista al professor Luca Savarino – professore di Bioetica presso l’Università del Piemonte Orientale – nasce con l’intento di illustrare, in maniera semplice e chiara, la questione etica e giuridica che riguarda il fine vita. Come debbono orientarsi i medici, oggi, di fronte a richieste di interruzione di trattamenti terapeutici? Che cosa è consentito, almeno in Italia, a quei pazienti affetti da malattie incurabili e degenerative? Il professor Savarino è riuscito a far luce su questi interrogativi non semplici, che a ben vedere – come si legge nelle riflessioni conclusive – non riguardano solo la pratica medica, l’etica di una professione curante e i diritti dei pazienti.

EL: Professor Savarino cominciamo con il delineare la complicatissima questione del fine vita partendo da un chiarimento terminologico…

LS: La distinzione fondamentale per inquadrare la problematica del fine vita è quella tra la non attivazione o la sospensione di un trattamento medico e l’aiuto attivo al morire. Non a caso tale distinzione si trova al centro della legge n. 219 del 2017, che è la legge quadro italiana su questo tema. Essa si basa su una serie di fonti normative, la principale delle quali è l’articolo 32 della Costituzione, che tutelano l’autonomia di scelta in ambito terapeutico con il conseguente divieto di imporre un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Negli ultimi vent’anni, inoltre, vi sono state una serie di sentenze celebri che riguardano casi che hanno agitato l’opinione pubblica italiana, come quelli di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro. La 219/2017 è una buona legge, che pone l’Italia a livello dei paesi europei e occidentali maggiormente evoluti, e che ha dato certezza a un diritto già esistente, ma sino a quel momento difficilmente esigibile per il cittadino.

EL: Che cosa stabilisce esattamente?

LS: È una legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e stabilisce che, sulla base dell’articolo 32 della Costituzione, il malato ha il diritto di non iniziare o di interrompere qualsiasi trattamento sanitario indesiderato, anche se da questa sospensione o non attivazione dovesse derivare la morte del malato stesso. In realtà, sin dal secondo dopoguerra, la letteratura bioetica ha stabilito che il consenso informato è la base della relazione fra medico e paziente. Di qui l’idea che il paziente abbia il diritto di essere informato sulle proprie condizioni di salute e possa accettare, ma anche rifiutare, qualsiasi tipo di azione o di trattamento che avvenga sul suo corpo. Si tratta di una traduzione in ambito sanitario dell‘habeas corpus liberale classico: affinché qualcuno abbia il diritto di praticare un trattamento sanitario sul mio corpo, in assenza di una specifica disposizione di legge (come, per esempio, una norma che obblighi determinate categorie di persone a vaccinarsi, come avvenuto durante la pandemia da Covid-19), sono io a dover dare il consenso. Nessuno può dunque essere obbligato a un trattamento sanitario contro la propria volontà: la legge 219 sancisce l’autodeterminazione del malato in materia sanitaria.

EL: La Costituzione risale al 1948, si è dovuto attendere sino al 2017 per avere una legge circostanziata sul consenso informato…

LS: Si tratta di una questione culturale oltre che legislativa. Fino a qualche anno fa si distingueva tra iniziare e sospendere un trattamento medico: mentre era considerato lecito che un malato rifiutasse di iniziare uno specifico trattamento, non si considerava lecito che lo sospendesse. Ora, invece, si è fatta chiarezza da un punto di vista etico e giuridico e si equipara l’atto di non iniziare all’atto di sospendere. Molti ricorderanno il caso di Piergiorgio Welby: ancora all’inizio degli anni duemila, in Italia, un malato di SLA poteva rifiutare di farsi tracheotomizzare, ma quando la tracheotomia era avvenuta non era considerato lecito togliere il respiratore. Difficilmente un medico avrebbe corso il rischio di essere condannato per omicidio volontario, sulla base di una categoria bioetica, quella di eutanasia passiva, che oggi abbiamo quasi del tutto abbandonato.

EL: A questo mutamento legislativo corrisponde una consapevolezza di tipo etico e culturale tra gli addetti ai lavori?

LS: Da professore di bioetica, mi capita spesso di constatare che non tutti i medici hanno pienamente maturato l’idea dell’equivalenza etica della distinzione fra non iniziare e sospendere un trattamento. Il che è anche comprensibile: da un punto di vista psicologico, infatti, il medico che ottemperi alla richiesta di un paziente di sospendere un trattamento si sente maggiormente responsabile degli eventuali danni che potrebbero derivare al paziente da questa sospensione. Al contrario, di fronte al rifiuto di un paziente di iniziare un trattamento proposto, la responsabilità delle conseguenze sembrerebbe ricadere solo e unicamente sul paziente stesso. Sul piano etico, tuttavia, entrambi questi atti sono da intendersi come espressione della volontà del malato. Dal punto di vista morale e giuridico, insomma, i medici non sono affatto agenti causali che determinano la morte del malato, qualora mettano in pratica una decisione che sta – e deve stare – solo in capo al malato stesso. Questo è il motivo per cui la legge 219 non prevede l’obiezione di coscienza: un medico che ottemperi alla richiesta del paziente di sospendere un trattamento che il paziente stesso non è in grado di sospendere (pensiamo sempre al caso di Piergiorgio Welby, ma anche a quello, altrettanto noto, di Eluana Englaro) non è responsabile della morte di quest’ultimo. Più semplicemente, in tal caso, il medico tutela e garantisce un diritto fondamentale di ogni malato: decidere i trattamenti che possono venir effettuati sul suo corpo.

EL: Abbiamo parlato finora di quel che possono o non possono fare i medici, ma invece, dal punto di vista del paziente, quali sono i limiti prescritti dalla legge 219/2017?

LS: C’è un limite molto chiaro che la legge 219 pone all’autodeterminazione del paziente: il paziente non ha il diritto di chiedere di essere ucciso. La distinzione etica fondamentale, tradotta dall’inglese, è quella tra “killing” e “letting die”, vale a dire tra uccidere e lasciar morire. Mentre è diritto insindacabile del malato quello di rifiutare un trattamento, non è suo diritto chiedere di essere ucciso o di essere aiutato ad uccidersi. Diritto insindacabile significa che il malato non deve fornire alcuna specifica giustificazione della propria scelta. Le motivazioni possono essere di varia natura e riguardare anche una specifica convinzione di tipo religioso. Non è infrequente, per esempio, incontrare medici che chiedono che cosa dovrebbero fare quando devono curare un malato, testimone di Geova che rifiuta una trasfusione di sangue. Ai sensi della 219, la risposta è molto chiara: il medico è tenuto a rispettare la volontà del malato, qualora, ovviamente, essa sia stata espressa in modo autonomo e consapevole Va anche ricordato che la legge 219 sancisce che la decisione del malato di essere “lasciato morirenon debba mai tradursi in una forma di abbandono terapeutico: il malato ha in ogni caso il diritto di essere assistito fino alla fine della sua vita, tramite un’adeguata assistenza di tipo palliativistico. Esattamente come la legge Leonetti in Francia, la 219 autorizza la cosiddetta sedazione palliativa continua profonda, che in nessun modo può essere equiparata a un atto di tipo eutanasico. Qualora le sue condizioni cliniche lo richiedano, il malato ha il diritto di essere sedato (privato della coscienza) durante l’arco temporale che intercorre tra il momento in cui viene sospeso il trattamento e il momento in cui intercorre la morte.

Invece, le due fattispecie etiche e giuridiche che la legge 219 vieta, come forme dirette e attive di aiuto a morire, sono l’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito. L’eutanasia è quell’atto tramite il quale un medico pone fine alla sofferenza insopportabile di un malato su richiesta autonoma e volontaria del malato stesso. Il suicidio medicalmente assistito invece è l’atto con cui il medico prescrive al malato un farmaco letale, con il quale il malato stesso può porre fine alla propria vita in maniera autonoma. Dal punto di vista etico queste due categorie sono abbastanza sovrapponibili, anche se personalmente sarei favorevole all’eutanasia più che al suicidio medicalmente assistito.

EL: Perché?

LS: Si può legittimamente essere favorevoli o contrari a pratiche come eutanasia e suicidio assistito. Ma se si è favorevoli, non è possibile non tener conto di un fattore fondamentale che, a mio parere, rende preferibile una legge sull’eutanasia: essa ricomprende tutti quei malati che non riescono più ad iniettarsi autonomamente la dose letale del farmaco e garantisce un’assistenza medica continuativa al malato sino al momento della sua morte.

EL: E qui veniamo però ai limiti della legge 219, vero Professore? Limiti che hanno poi portato al caso eclatante della sentenza della Corte Costituzionale nel 2019.

LS: Non parlerei propriamente di limiti: come ho già detto ritengo la 219 una buona legge, che esprime una posizione in linea con quella di alcuni dei paesi europei più avanzati in materia di diritti sanitari. Il fatto che io sia favorevole a una normativa che legalizzi l’aiuto attivo al morire non significa che non riconosca i lati positivi della 219. Per quanto riguarda la sentenza della Corte Costituzionale che lei ha appena ricordato, nasce dal caso del quarantenne Dj Fabo, ovvero Fabiano Antoniani, tetraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale e parzialmente dipendente da un sistema di sostegno vitale. In base alla legge 219, Antoniani avrebbe potuto chiedere la sospensione del trattamento e di essere sedato, ma il tempo entro cui sarebbe avvenuta la morte avrebbe potuto essere molto lungo. La motivazione che rendeva tutto ciò inaccettabile agli occhi di Fabiano Antoniani era duplice: da un lato il fatto che questo tipo di morte contrastasse con la sua idea della dignità del morire, e dall’altro il fatto di non voler infliggere ai suoi cari un periodo troppo prolungato di sofferenza. Il nocciolo della questione, insomma, non riguardava tanto la possibilità di morire (cosa che una corretta applicazione della 219 gli avrebbe comunque garantito) quanto la specifica modalità in cui la morte sarebbe dovuta sopravvenire.

EL: Una volta che Dj Fabo matura la convinzione di non voler seguire quanto prescritto dalla legge 219, come raggiunge il suo scopo?

LS: Antoniani si rivolge all’attivista radicale Marco Cappato e alla Fondazione Luca Coscioni, che lo accompagna in Svizzera per accedere a un programma di suicidio medicalmente assistito e poi, una volta tornato in Italia si autodenuncia per aiuto al suicidio cosa che in Italia in quel momento era reato. La punibilità dell’aiuto al suicidio era stabilita dall’articolo 580 del Codice penale. Anche per questo motivo i giudici del Tribunale di Milano, invece di rinviare Cappato a giudizio, oppure di archiviare il caso perché il fatto non sussiste, si rivolgono alla Corte Costituzionale perché precisasse l’applicabilità di un articolo risalente al 1930 a una situazione completamente diversa da quella dell’epoca (vale a dire al suicidio medicalmente assistito). La Corte Costituzionale riconosce la parziale inapplicabilità del 580 e, non volendo abolirlo integralmente, chiede dapprima al Parlamento di risolvere il problema con una legge apposita. Trascorso un anno dalla prima ordinanza del 2018, nel 2019 la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza, la 242/2019, con cui ha abolito il reato di aiuto al suicidio in particolari e specifiche condizioni.

EL: Ma quindi, in virtù di questa sentenza storica, che cosa viene regolato in Italia sul suicidio medicalmente assistito?

LS: Come detto, il suicidio medicalmente assistito è lecito in Italia solo in presenza di quattro specifiche condizioni (che non a caso erano presenti nel caso di Fabiano Antoniani, su cui la sentenza in certo qual modo si è modellata): essere capaci di intendere e di volere; essere affetti da una sofferenza fisica o psichica insopportabile; essere affetti da una patologia irreversibile; essere dipendenti da un sistema di sostegno vitale.

EL: Dalla promulgazione della sentenza nel 2019 quanti sono riusciti ad avvalersi di questo diritto?

LS: Non conosco il numero esatto di persone, certamente non molte. Questo dato può essere valutato in due modi molto diversi tra loro. Sarebbe un fatto positivo se volesse dire che la gran parte dei pazienti scelgono autonomamente di morire attraverso un percorso di cure palliative uniformemente diffuso nell’arco di tutto il territorio nazionale (cosa che sappiamo benissimo che oggi non avviene). E’ invece un fatto molto meno positivo se il numero esiguo di suicidi assistito dipendesse da incertezze di tipo normativo e ostacoli di tipo burocratico (come credo più probabile). Ciò premesso, il primo paziente ad aver effettuato un suicidio medicalizzato in Italia è stato un signore marchigiano di 43 anni, tetraplegico anche lui a seguito di un incidente stradale, e che dunque presentava tutte e quattro le condizioni menzionate nella sentenza. E’ notizia di questi giorni, invece, che ad accedere al suicidio medicalmente assistito, in Veneto, è stata la signora Gloria, malata di tumore. Si tratta di un caso molto importante, perché a differenza di Mario, la paziente non era dipendente da un sistema di sostegno vitale. O meglio: è stato riconosciuto (sulla scorta di una sentenza del tribunale di Massa del 20220 sul caso Trentini che andava nella stessa direzione) che le cure oncologiche possono essere interpretate come un sistema di sostegno vitale. Si è dunque fatta strada un’interpretazione estensiva di quest’ultimo concetto: essere dipendenti da un sistema di sostegno vitale non significa necessariamente essere attaccati ad una macchina ma ricevere delle cure che ti permettono di rimanere in vita. Su questo specifico punto mi vien da fare una duplice considerazione. Da un lato questa interpretazione permette di evitare discriminazioni nell’accesso al suicidio medicalmente assistito, dall’altro è ancora una volta la dimostrazione del fatto che la magistratura è obbligata a supplire all’incapacità della politica di fare il proprio mestiere (in questo caso di approvare una legge equa ed accettabile su questo tema).

EL: Cosa prevede che avverrà in materia di fine vita nel prossimo futuro?

LS: Io penso che, almeno nelle società tecnologicamente avanzate, questioni come eutanasia e suicidio medicalmente assistito non rimarranno troppo a lungo confinate nell’ambito in cui sono nate, vale a dire l’etica medica: non saranno più semplicemente una risposta al bisogno di morire senza sofferenza fisica o psicologica (già oggi, del resto, le cure palliative permettono nella stragrande maggioranza dei casi di risolvere questo problema), ma diventeranno una questione di tipo antropologico, legata alla concezione personale della dignità del morire. Il fine vita diventerà sempre più il terreno su cui si realizza il principio di autodeterminazione individuale (essere padroni del proprio destino significa poter decidere quando e come morire) e una concezione della dignità umana come autorappresentazione, legata alla concezione che le persone che hanno di sé e della propria immagine.

Nota

In Francia la legge Claeys-Leonetti n. 87 del 2016 ha autorizzato la “sedazione prolungata e continua” per i malati che siano in imminente pericolo di vita ma non l’assistenza attiva nel morire, a differenza di quanto è previsto in Belgio o in Svizzera.

 

A cura di Emiliano Loria


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