Riferimento bibliografico

Zhang, Q., Bastard, P., COVID Human Genetic Effort. et al. Human genetic and immunological determinants of critical COVID-19 pneumoniaNature (2022). https://doi.org/10.1038/s41586-022-04447-0

In sintesi

In questa review gli autori hanno valutato l’impatto di alcuni determinanti genetici e immunologici nello sviluppo di forme severe di polmonite da COVID-19: in particolare si sono concentrati sull’interferone di tipo I, una famiglia di citochine che costituisce una delle principali armi con cui il nostro sistema immunitario risponde alle infezioni virali. Gli autori hanno indagato l’effetto di alcune varianti di geni che codificano per proteine implicate nella via dell’interferone, in quanto predisporrebbero a un rischio aumentato di polmonite severa. Inoltre, hanno riportato il possibile rischio derivante dallo sviluppo di anticorpi neutralizzanti diretti contro l’interferone, che sono molto frequenti in caso di forme gravi di COVID-19.

Il contesto e il punto di partenza

Le manifestazioni cliniche dell’infezione da SARS-CoV-2 sono estremamente variabili e vanno da forme clinicamente silenti o paucisintomatiche a forme più severe, anche letali. Tra i principali fattori di rischio che comportano esiti negativi della malattia, i principali sono il sesso (gli uomini hanno un rischio di morte che è 1,5 volte maggiore rispetto alle donne) e l’età: infatti, soggetti di età superiore a 80 anni mostrano un rischio di morire per COVID-19 che è circa 10000 volte superiore al rischio dei soggetti che si trovano nella prima decade di vita. Il motivo di questa eterogeneità clinica non è ancora chiaro; una possibilità è che le manifestazioni cliniche severe di COVID-19 possano essere collegate ad una disfunzione del sistema immunitario clinicamente silente e quindi ben lontana dall’idea tradizionale di immunodeficienza.

Già dagli anni novanta del secolo scorso, infatti, si è fatto strada il concetto di errori innati dell’immunità (inborn errors of immunity, IEIs), che si riferisce a individui particolarmente suscettibili verso alcuni specifici tipi di infezione. Per esempio, si è stimato che questi IEIs siano responsabili di circa l’1% dei casi di tubercolosi nelle popolazioni europee. Con queste premesse è stato lanciato il progetto COVID Human Genetic Effort (CHGE, www.covidhge.com) finalizzato a scoprire quali fattori molecolari, cellulari e immunologici potessero essere alla base della variabilità clinica di COVID-19.

I risultati ottenuti

Lo scopo di questo studio è quello di chiarire gli aspetti genetici e immunologici alla base delle polmoniti severe in COVID-19. I ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione su vari aspetti molecolari, il cui fulcro è rappresentato dall’interferone di tipo I, la famiglia di citochine che rappresenta una delle principali vie con cui il sistema immunitario innato risponde alle infezioni virali. Infatti, quando una cellula viene infettata da un virus, le particelle virali vengono riconosciute come estranee e inducono la produzione dell’interferone che agisce sulle cellule vicine facendogli assumere un “assetto antivirale”, in modo che l’infezione venga circoscritta e infine, con la partecipazione di altre citochine e tipi cellulari, debellata. Una carenza in questo sistema potrebbe rendere le cellule maggiormente suscettibili all’infezione virale e alla diffusione sistemica dell’infezione stessa.

I meccanismi capaci di alterare la risposta immunitaria innata mediata dall’interferone di tipo I sono sostanzialmente due.

  • Il primo meccanismo è di natura genetica. Le fondamenta di questi studi sono state poste da studi precedenti relativi a polmoniti severe causate da virus dell’influenza, con il quale SARS-CoV-2 condivide il fatto di essere un virus a RNA e di dare un’infezione principalmente respiratoria. Relativamente alle polmoniti da virus influenzale erano stati individuati tre geni di suscettibilità codificanti per proteine (Toll-like Receptor 3, TLR3; Interferon Regulatory Factor 7 e 9, IRF7 e IRF9) implicate in vie di trasduzione collegate all’interferone. Le ricerche su SARS-CoV-2 hanno poi ampliato la rosa dei geni di suscettibilità a tredici candidati: ad oggi sono state individuate mutazioni in almeno nove geni, alcune autosomiche recessive, altre autosomiche dominanti e alcune legate al cromosoma X, con prevalenza incompleta che sembrerebbe essere più spiccata per le forme autosomiche recessive. In definitiva, mutazioni clinicamente rilevanti a carico di uno di questi geni sembrerebbero essere associate a circa l’1-5% dei casi di polmonite severa da SARS-CoV-2, soprattutto in individui di età inferiore a 60 anni. Un altro approccio impiegato dai ricercatori è lo studio di associazione genome-wide (GWAS), con cui sono state identificate alcune varianti comuni di regioni cromosomiche associate con un rischio maggiore di malattia da severa da COVID-19; non a caso, tre di queste comprendevano geni coinvolti nell’immunità innata mediata dall’interferone di tipo I.
  • Il secondo aspetto riguarda la presenza di autoanticorpi diretti contro l’interferone, capaci di neutralizzare la sua attività protettiva verso le infezioni virali. In effetti, diverse evidenze sperimentali che hanno sottolineato questo aspetto: in particolare, SARS-CoV-2 mostra una minore capacità di indurre la produzione di interferone rispetto ad altri virus; studi in vitro hanno evidenziato la capacità di questi autoanticorpi di inibire l’azione dell’interferone; la presenza degli autoanticorpi si associa a livelli sierici di interferone più bassi o addirittura indosabili. Un ulteriore indizio viene dai pazienti affetti da sindrome poliendocrina autoimmune di tipo 1; in questa malattia, infatti, a causa della perdita della tolleranza immunitaria centrale, si verificano svariate manifestazioni autoimmuni, compresa la produzione di autoanticorpi tra cui quelli anti-interferone. Questi pazienti mostrano un elevato rischio di sviluppare una polmonite severa correlata a COVID-19. A fronte di queste evidenze, studiando pazienti con malattia severa da COVID-19, i ricercatori hanno rilevato la presenza di autoanticorpi neutralizzanti l’interferone in circa il 15-20% dei casi. Viceversa, nei pazienti con infezione silente o paucisintomatica, gli stessi autoanticorpi non venivano rilevati. In alcuni casi è stato possibile identificare la presenza degli autoanticorpi nel plasma convalescente di soggetti ospedalizzati per COVID-19 e, nei pochi soggetti testati, questi erano già presenti prima dell’infezione. Su questi presupposti i ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che l’infezione da SARS-CoV-2 agirebbe da booster potenziando una risposta autoanticorpale già preesistente, favorendo quindi il persistere e il propagarsi dell’infezione stessa. Il passo successivo è stato quello di indagare la prevalenza degli autoanticorpi nella popolazione generale, trovando risultati sorprendenti: questa non solo è più alta negli uomini rispetto alle donne, ma soprattutto aumenta significativamente all’aumentare dell’età. Ciò potrebbe contribuire al maggiore rischio di malattia severa e mortalità COVID-correlata che si osservano nei soggetti di età avanzata.

Limiti dello studio

Questa review ha fatto luce sui fattori genetici e immunologici che sono alla base del 15-20% dei casi di polmonite severa correlata a COVID-19. Questo dato non ha precedenti nell’ambito delle malattie infettive: per esempio la tubercolosi può essere spiegata geneticamente in appena l’1% dei casi, ma non sarebbe sorprendente scoprire altri fattori genetici e immunologici capaci di impattare sul funzionamento del sistema immunitario innato e, di rimando, influenzare la severità dell’infezione. Rimane da scoprire anche l’eventuale ruolo che potrebbe avere la parte più raffinata del nostro sistema immunitario, ovvero quella adattativa. Ad esempio, una questione importante può essere quella di capire se la risposta adattativa indotta dal vaccino sia in grado di compensare o meno un deficit costituzionale dell’immunità innata.

Quali le prospettive

Da un punto di vista laboratoristico si potrebbe ricercare la presenza degli autoanticorpi prima dell’infezione, oppure si potrebbe dosarne i livelli nelle prime fasi dell’infezione in modo da avere un elemento aggiuntivo per predire la severità della malattia. Da un punto di vista di sanità pubblica, i soggetti individuati con queste caratteristiche genetiche e immunologiche potrebbero avere una priorità nelle campagne vaccinali, essendo a maggior rischio di sviluppare forme severe di COVID-19. Si potrebbero studiare dei trattamenti specifici volti a bloccare l’azione degli autoanticorpi, ad esempio con anticorpi monoclonali o tecniche più sofisticate come il plasma exchange. Per quanto riguarda la somministrazione di terapie a base di interferone, queste non si sono rivelate efficaci nei pazienti ospedalizzati, probabilmente perché somministrate in fase avanzate dell’infezione quando la risposta infiammatoria è ormai diventata sistemica; tuttavia, sono in corso trial clinici per testare l’efficacia della terapia somministrata nelle fasi precoci dell’infezione.

A cura di Roberto Piffero


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