Curare malattie, riparare tessuti e perfino sostituire interi organi senza utilizzare medicine ma solo la capacità delle cellule di cui siamo fatti di rigenerarli: questa è la medicina rigenerativa, un campo in rapida evoluzione che ha iniziato a muovere i suoi primi passi già dalla seconda metà del secolo scorso. La senescenza delle cellule e dei tessuti è, inoltre, tra le cause dell’invecchiamento organico dell’intero corpo, che porta a una fisiologica e progressiva diminuzione della funzionalità dei nostri organi. È questo il motivo per cui la medicina rigenerativa ha in sé la potenzialità di essere un valido strumento contro l’invecchiamento e i suoi effetti negativi.
Ce ne parla la Professoressa Antonia Follenzi, docente di Istologia e, appunto, Medicina Rigenerativa e Terapia Genica dell’Università del Piemonte Orientale.
Prof.ssa Follenzi, che cos’è la medicina rigenerativa?
È la riparazione di organi o tessuti utilizzando cellule staminali, cioè cellule immature del nostro corpo che sono ancora capaci di proliferare, generando le cellule più mature che costituiscono i nostri tessuti. Possono provenire dallo stesso paziente e venire corrette mediante terapia genica, oppure arrivare da un donatore compatibile. Sostanzialmente, invece che curare utilizzando un farmaco e quello che si fa è ricostituire i tessuti danneggiati.
Questo approccio ha una lunga storia: il primo esempio di terapia cellulare è infatti la trasfusione di sangue, che facciamo da oltre 100 anni, ma una vera e propria prima terapia di medicina rigenerativa risale all’inizio degli anni 60 del secolo scorso: si parla del primo trapianto di midollo avvenuto con successo tra gemelli.
L’idea del trapianto di midollo è nata da un’osservazione avvenuta in un’occasione tragica, l’utilizzo della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Le persone che erano state colpite dalle radiazioni, superata la prima fase di shock, sembravano in fase di recupero. Invece dopo circa 15 giorni cominciarono a mostrare una serie di sintomi tanto preoccupanti quanto, fino ad allora, inspiegabili: le ustioni non si rimarginavano per via della perdita della capacità rigenerativa dell’epidermide e la diminuzione dei globuli bianchi li portava a sviluppare anemie e infezioni. Insomma, si è capito che le radiazioni, in quelle persone, avevano colpito qualcosa che era in grado di rigenerare, togliendogli questa capacità.
Erano le cellule staminali del sangue, le cellule emopoietiche, che stanno appunto nel midollo osseo. Da qui è derivata poi l’intuizione di poterle utilizzare per curare numerose condizioni patologiche.
Da quei primi passaggi, la medicina rigenerativa è diventata una delle aree cliniche più importanti nella ricerca di base e traslazionale. Questo grazie anche alla terapia genica, cioè alla possibilità di “riparare” le cellule dei pazienti e renderle capaci di rigenerare delle funzioni che nell’individuo sono state danneggiate dalla malattia.
Tra le prime cellule staminali utilizzate ci sono state le staminali embrionali, ottenute da embrioni umani ai primissimi stadi dello sviluppo. Al loro utilizzo sono state opposte forti obiezioni di natura etica: questo pone ancora limiti alla ricerca e alla terapia o si può fare affidamento su altri tipi di cellule staminali?
Innanzitutto, ricordiamo che ogni cellula matura dei nostri tessuti deriva da cellule progenitrici che a loro volta derivano da cellule staminali, cellule capaci di rigenerare sé stesse e di dare origine ad altri tipi cellulari.
Esistono tre tipi di cellule staminali.
Le cellule staminali embrionali derivano dalla blastocisti, una fase dello sviluppo dell’embrione, e in particolare da un gruppo di cellule che si chiama massa cellulare interna, che vengono isolate ed amplificate. In Italia, come in alcuni altri Paesi, è stato imposto il divieto di generare queste cellule ma in alcuni centri specializzati è possibile usarle. Le cellule staminali embrionali hanno, comunque, il grosso problema del rigetto: non sono compatibili con il paziente perché appartengono, di fatto, a un altro individuo.
Poi abbiamo le cellule staminali adulte, che prendiamo da un donatore adulto. Un esempio è il trapianto di midollo osseo: viene fatto normalmente dal midollo di un adulto, o al massimo di un bambino, e viene donato a un paziente ricevente compatibile.
Nel 2006, infine, uno studioso giapponese ha inventato un nuovo modo di generare cellule staminali che sono le cellule staminali pluripotenti indotte, dette IPSC (Induced Pluripotent Stem Cells). Oggi a livello sperimentale vengono usate tantissimo e sono stati già fatti i primi clinical trals che le utilizzano.
Grazie a questa innovazione, si utilizzano in medicina rigenerativa le stesse cellule del paziente “correggendo” le loro mutazioni negative con la terapia genica. Un altro vantaggio è che queste cellule si possono generare utilizzando cellule mature di qualunque origine – da quelle della pelle a quelle del sangue – che possiamo far tornare staminali. Così sono simili alle cellule embrionali ma provengono dallo stesso corpo del paziente: questo rimuove ogni problema etico e, cosa molto importante, diminuisce fortemente il rischio di rigetto.
In seguito, queste cellule simili alle cellule embrionali possono essere fatte maturare in ogni tipo di cellula che ci serve per le terapie rigenerative: cellule del sangue, dell’epidermide, dell’osso e molte altre.
Le cellule staminali pluripotenti indotte non sono però solo uno degli strumenti più interessanti della medicina rigenerativa. Permettono anche di costruire dei modelli sperimentali utili per studiare le malattie, gli organoidi.
Sono delle strutture molto semplici che possono mimare molte delle funzioni degli organi veri e propri, formati degli stessi tipi cellulari. Da alcune cellule IPSC ottenute da un paziente malato di Parkinson possiamo, ad esempio, ricreare un organoide che assomiglia ad un “cervello in vitro” e studiare da vicino come si comportano le cellule malate al suo interno. Trattandosi del cervello, le stesse cose non le potremmo ovviamente fare in vivo, in quanto siamo impossibilitati a fare delle biopsie al paziente.
C’è anche la possibilità di costruire interi organi per sostituire quelli con funzione compromessa?
Assolutamente sì, si sta lavorando anche per quello. Con le stampanti 3D c’è la possibilità di costruire delle impalcature di sostegno su cui poi vengono messe a proliferare le cellule per dare forma a delle strutture biologiche simili agli organi e ai tessuti.
Non si può certo dire che la ricerca stia muovendo i primi passi: ci sono già dei trials clinici che coinvolgono le staminali pluripotenti indotte per rigenerare la retina dell’occhio e aumenteranno sempre di più quelli in cui si cercherà di costruire o riparare degli organi.
Nel nostro istituto, il team della Professoressa Chiocchetti ha vinto un grande finanziamento europeo per ricreare un ginocchio-in-a-chip: studieranno i meccanismi molecolari dell’artrite reumatoide con l’obiettivo di curare le articolazioni danneggiate.
Con il mio gruppo stiamo partecipando in un consorzio europeo che mira a ricostruire un pancreas, partendo dalla possibilità di formare degli organoidi che vanno a mimarne le funzioni, in special modo la parte cellulare che produce l’insulina.
Il suo gruppo di ricerca studia le malattie del sangue. Che ruolo gioca la terapia genica nel curare quelle malattie?
Ci occupiamo di emofilia ma anche di altre malattie del fegato e utilizziamo sia la terapia genica che la terapia cellulare, al momento esclusivamente su modelli animali.
Il problema che cerchiamo di risolvere è il fatto che le cellule del fegato dei pazienti emofilici non sono più in grado di produrre il Fattore VIII della coagulazione e il nostro scopo è restaurare questa capacità.
Il nostro approccio è duplice. Uno è la terapia genica pura: grazie a dei virus modificati correggiamo le cellule del fegato direttamente nel corpo del topo in modo che producano questo fattore.
Oppure facciamo medicina cellulare e genica, prelevando dall’animale cellule emofiliche che andiamo, anche qui, a correggere perché producano il Fattore VIII e successivamente le infondiamo nuovamente nel topo, direttamente nel suo fegato, oppure ricostruendo dei nuovi tessuti grazie alle impalcature artificiali (scaffolds) di cui dicevo prima.
Il risultato di questo approccio è che si tratta di una terapia autologa: la soluzione alla malattia sono infatti le stesse cellule dei pazienti, che tornano a essere funzionali, e non c’è quindi problema di rigetto.
Il nostro prossimo obiettivo è utilizzare lo stesso approccio per curare il Diabete di tipo 1, dovuto alla perdita di funzione di alcune cellule del pancreas.
Al di là dei nostri specifici campi di applicazione, poi, la terapia genica promette di produrre cure per molte altre malattie.
Per esempio quelle neurodegenerative come la malattia di Parkinson, donando nuovamente alle cellule nervose la capacità di produrre dopamina. Oppure la SLA, o anche l’Alzheimer. La terapia genica applicata al trapianto di midollo può fornire anche la cura di alcuni tumori del sangue, le leucemie.
La medicina rigenerativa è nel suo periodo più florido, finalmente iniziano a esserci degli studi clinici efficaci che danno risultati positivi e fanno ben sperare per un futuro ricco di successi.
La terapia genica verrà mai offerta come prestazione routinaria dal SSN o si può immaginare che risulterà troppo costosa?
Attualmente la terapia genica in generale è, effettivamente, costosa.
Come renderla facilmente accessibile è un discorso complesso che coinvolge l’evoluzione delle tecniche ma anche una serie di attori coinvolti nei vari passaggi della ricerca clinica. Ad esempio, ci sono enti che si occupano proprio di finanziare la cura delle malattie rare.
Investire sull’erogazione delle terapie di medicina rigenerativa conviene assolutamente, e faccio a un esempio che conosco bene: l’emofilia.
È una malattia rara e in Italia curare un paziente emofilico costa circa 150mila euro all’anno. Questo per ogni paziente, ma a essere colpito dal tipo più comune di emofilia è circa un maschio ogni 5000 nati vivi. Si tratta di cifre elevate, che rendono indispensabile investire su queste terapie per renderle economicamente vantaggiose e utilizzarle per tutti.
C’è però anche un importante ruolo delle aziende farmaceutiche e biotecnologiche. È anche loro il compito di capire come contenere i costi.
Io sogno un comitato etico e un fondo internazionale ascrivibili a un organismo come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che abbia a cuore questo problema per risolverlo su scala mondiale. Il suo compito dovrebbe essere di garantire le terapie a tutti, valutare come utilizzare le risorse a disposizione della ricerca e della clinica e decidere cos’è meglio guarire prima.
Tra le promesse della medicina rigenerativa c’è anche che possa intervenire sui processi fisiologici dovuti all’invecchiamento o addirittura permettere l’estensione della vita?
Un filone di ricerche che va in questo senso è già in corso in California. In particolare ci sono aziende biotecnologiche nell’area di San Francisco che cercano di manipolare le cellule introducendo geni che ne allungano la vita. Questi studi sono iniziati oltre vent’anni fa su un animale chiamato Caenorabditis elegans, un piccolo verme la cui vita è davvero molto breve. Gli scienziati sono riusciti nel tempo ad allungare di molto la vita media di questo nematode.
In generale la ricerca sull’aging è molto vasta perché è un tema di grande attualità e il mito dell’immortalità non è certo un desiderio recente. La differenza è che ora non si tratta più di fantascienza: non è più nemmeno solo ricerca di base, siamo già alla ricerca traslazionale.
Guardando all’uomo e all’Italia, In Sardegna stanno studiando il DNA di una piccola popolazione di sardi che supera senza problemi i 100 anni senza tumori. È molto interessante studiare quali siano i geni che permettono a queste persone di vivere così a lungo, oltre allo stile di vita sano e a tutti gli altri fattori che, come sempre, concorrono al risultato.
Confido che nei prossimi dieci anni potremmo vedere risultati interessanti.
C’è però da porsi una domanda: noi vogliamo vivere così a lungo? È facile immaginare che tutti vorremmo arrivare a 100 anni lucidi, senza demenza senile, in grado di fare le passeggiate e di continuare a leggere libri. Ma la ricerca probabilmente continuerà a dare possibilità e ci metterà nella posizione di dover essere noi a scegliere qual è il limite a cui vogliamo arrivare. Anche in questo caso vedo un importante ruolo per i comitati etici che, in futuro, dovranno riflettere su qual è il senso di una vita biologica molto lunga.