Mi dispiace dottor Kersey, non so che dirle
Non potete fare niente? Mi sta dicendo questo?
Possiamo avere fede.

Il dottor Kersey è lui, Bruce Willis, e lo scambio di battute con il detective Raines (Dean Norris) è tra i momenti più intensi di “Il giustiziere della notte” (2018), una delle pellicole che maggiormente ha contribuito a creare il mito del sessantasettenne attore americano. Parole che, estrapolate dal contesto cinematografico, sembrano un presagio di sventura per Willis, cui soltanto due anni dopo sarà diagnosticata prima un’afasia – che lo costringerà quasi subito ad abbandonare le scene per l’incapacità manifesta di comporre e comprendere il linguaggio – poi, più specificamente, una demenza frontotemporale.

La malattia che ruba le parole

Sta succedendo che spesso mi sfuggono le parole, mi sembra di averle sulla punta della lingua, ma non riesco a dirle… A volte sono i nomi delle persone, altre volte nomi di posti a me cari. Mi imbarazza quando mi trovo in pubblico! Devo preoccuparmi, dottore?
Questa è una frase che certamente tutti abbiamo sentito dire (o detto), qualche volta… Ma dobbiamo sempre considerarla una frase di poco conto? O ci dobbiamo preoccupare sempre? La risposta, come per la maggior parte delle cose, è: dipende.
Prima di andare ad approfondire le ragioni di questo disturbo, però, cerchiamo di capire meglio che cosa si intende per linguaggio e come esso si forma.

Che cos’è il linguaggio?

Il linguaggio può essere definito come una funzione della corteccia cerebrale che permette di dare forma a idee ed emozioni mediante l’uso di simboli, chiamati parole. Per comprendere appieno che cosa succede quando abbiamo la sensazione che “non ci vengano” queste parole, è opportuno spendere qualche riga per spiegare come funzionano, effettivamente, i circuiti cerebrali dedicati al linguaggio; incominciamo, allora, proprio ragionando sul diverso ruolo che hanno i lobi cerebrali.

Come si attiva il nostro cervello quando vogliamo parlare? Come funzionano le aree del linguaggio?

Le aree deputate alla produzione del linguaggio sono diverse: innanzitutto, la formulazione di un pensiero da esprimere inizia nel lobo frontale dell’emisfero di sinistra (emisfero dominante), che si occupa principalmente di ideazione, ragionamento e pianificazione dei messaggi. Da lì, poi, le informazioni sono trasmesse al lobo temporale omolaterale che si occupa di ricercare le parole da utilizzare e di adattare il lessico al contesto in cui il discorso sarà tenuto. Contemporaneamente, l’emisfero destro, in particolare un’area chiamata circonvoluzione angolare (o Zona 39 di Brodmann, ndr), si occupa delle funzioni linguistiche complesse e pertanto aiuta nelle scelte sillabiche, fonemiche e morfologiche.
Da ultimo, la produzione del suono richiede anche l’integrazione dei muscoli del distretto cranico, integrati e coordinati dai circuiti cerebrali. Quando uno o più di questi circuiti, per cause diverse, si interrompe o si danneggia, ecco manifestarsi i disturbi del linguaggio che, come vedremo, possono essere transitori o progressivi.

Quali sono i disturbi di linguaggio? E come si classificano?

Schematicamente, possiamo dividere i disturbi del linguaggio in:

  • afasie, spesso legate a disturbi cerebrali diffusi o, più raramente, a disturbi dello sviluppo del linguaggio;
  • disturbi della fonazione o disturbi dell’articolazione delle parole, causati da alterazioni motorie o meccaniche degli organi preposti alla produzione dei suoni.

Focalizziamo l’attenzione sulle afasie, che per definizione (dal greco a-phēmí, assenza di parola) sono disturbi causati da deficit di produzione e/o comprensione del linguaggio, in assenza di disturbi intellettivi del pensiero o di deficit sensitivi/motori. Le sindromi afasiche, in relazione alla capacità di produzione spontanea del linguaggio, sono solitamente distinte in fluenti (si mantiene la capacità di produrre vocaboli, che però spesso non hanno significato, o sono al di fuori del contesto e della domanda chiesta) e non fluenti (la produzione di vocaboli è estremamente impoverita).

Come esistono diversi tipi di disturbo del linguaggio, così sussistono anche differenti cause, che dobbiamo differenziare a seconda del loro tempo di comparsa. Questi disturbi, infatti, possono sia comparire in forma acuta, sia svilupparsi progressivamente nel corso di mesi. Tra le cause acute troviamo:

  • ictus ischemici ed emorragici;
  • traumi cranici;
  • processi infettivi (per esempio, le encefaliti);
  • crisi epilettiche parziali (che spesso possono manifestarsi con sintomatologia stereotipata e di breve durata, anche senza che ci siano alterazioni di coscienza);
  • l’emicrania, di cui il disturbo di linguaggio può precedere l’attacco.

Discorso a parte meritano le cause “croniche”, ovvero quelle che si sviluppano lentamente e che diventano sempre più disturbanti e invalidanti per la persona. In questo gruppo troviamo, principalmente, le malattie neurodegenerative che provocano un invecchiamento precoce e selettivo delle aree cerebrali responsabili del linguaggio. Questo gruppo di malattie, seppur molto più raro rispetto alle precedenti, prende il nome di afasie primarie progressive. Esse sono caratterizzate da aspetti clinici diversi che presentano come elemento comune la perdita del linguaggio. Il deficit linguistico può presentarsi a livello fonologico, semantico e sintattico, sul versante orale o scritto. Tali afasie hanno un decorso progressivo, con un impoverimento del linguaggio che si aggrava, fino a diventare incomprensibile. Inoltre, purtroppo, non ci sono ancora farmaci capaci di rallentare questa progressione.

Ma allora, tornando alla domanda iniziale, come possiamo sapere se il nostro disturbo ci deve preoccupare oppure no?

Il disturbo afasico, in genere, è diversificato attraverso un’attenta analisi del linguaggio, una visita neurologica e l’eventuale esecuzione di esami specialistici. Capire l’origine e l’eventuale causa dei disturbi di linguaggio ci permette di impostare un’adeguata terapia medica e riabilitativa. Inoltre, nel caso in cui gli accertamenti richiesti non dovessero dimostrare nessuna causa organica di disturbo del linguaggio, sarà possibile ipotizzare un’origine “funzionale” del disturbo, ovvero non legata a una vera e propria alterazione dei circuiti coinvolti quanto piuttosto a un problema del “generatore” stesso, ovvero del singolo individuo. Diversi studi, per esempio, hanno dimostrato che le situazioni stressanti peggiorano il disturbo: un po’ come succede agli studenti durante un’interrogazione: non hanno studiato abbastanza o davvero l’agitazione fa sì che non si ricordino la parola?

E possiamo in qualche modo tenere allenato il cervello o prevenire tutto ciò?

Come dicevamo, le cause del disturbo sono molteplici e agire in termini di prevenzione può servire a limitarne la comparsa. Per le afasie che sono espressione di un danno vascolare, per esempio, fare prevenzione significa anche tenere sotto controllo la pressione arteriosa, la glicemia e il colesterolo.
Più difficile, invece, è la prevenzione delle malattie croniche neurodegenerative; tuttavia, anche in questi casi, è stato osservato che mantenere la mente allenata e stimolata, limitare la solitudine, chiacchierare, leggere o guardare un film aiuta a prevenire, ritardare e ridurre l’impatto di queste forme.
Infine, anche se il disturbo del linguaggio fosse già presente, non va gettata la spugna. La funzionalità verbale è terapeuticamente migliorabile, con buoni esiti: una riabilitazione logopedica costante e mirata alla natura, all’intensità e alla gravità del problema e della disfunzione, effettuata in un contesto di collaborazione con medici specialisti, operatori sanitari, familiari e caregiver può dare ottimi risultati.

Un ultimo commento per tutte quelle situazioni dove, per fortuna, una causa sottostante al disturbo del linguaggio non si trova. Molte volte, infatti, non c’è una base organica e lo stress emotivo, le deflessioni dell’umore o le situazioni ansiose possono ingigantire il problema. Allora ecco alcune strategie e qualche consiglio…

  1. Si può cercare di fare capire la parola che si vuol dire descrivendola, per esempio rappresentando a cosa serve, che forma ha…
  2. Si può utilizzare una parola con un significato analogo (o perlomeno simile);
  3. Si può usare qualche rima o filastrocca per cercare di tenere a mente parole che più frequentemente non riusciamo a dire…
  4. Si possono usare delle associazioni con gli altri sensi: collegare la parola ad alcuni suoni, a una musica, a qualche elemento visivo…

 

Riferimenti

Marshall CR, et al. Primary progressive aphasia: a clinical approach. J Neurol. 2018 Jun;265(6):1474-1490.

Gorno-Tempini ML, et al. Classification of primary progressive aphasia and its variants. Neurology. 2011 Mar 15;76(11):1006-14.

Volkmer A, et al. Speech and language therapy approaches to managing primary progressive aphasia. Pract Neurol. 2020 Apr;20(2):154-161.

 

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