Alla fine degli anni ‘90 il mercato del lavoro in Italia ha subito profonde trasformazioni. Con la Legge Treu del 1997 prima, e con la Legge Biagi del 2003 poi, sono stati introdotti i contratti di collaborazione occasionale e forme di lavoro temporaneo e intermittente, che hanno inaugurato l’era della cosiddetta flessibilità. Un nuovo paradigma teorico in base al quale il lavoratore non solo cambia occupazione più volte nella propria carriera, ma cambia anche le mansioni, gli orari, le modalità e gli accordi di lavoro, senza giungere mai a una vera stabilità.

Il lavoro flessibile è collegato ad un alto livello di incertezza per il proprio futuro, fonte di preoccupazioni e stress. A lungo andare, questo modello può lasciare dei segni sulla salute psicofisica dell’individuo.

Sul tema sta lavorando un gruppo di ricerca formato dalla Prof.ssa Carmen Aina (Università del Piemonte Orientale), dalla Prof.ssa Giorgia Casalone (Università del Piemonte Orientale) e dal Prof. Michele Raitano (Università La Sapienza).

Ne parliamo con la Professoressa Carmen Aina, relatrice per il webinar Gli effetti a lungo termine delle traiettorie occupazionali sulla salute in tarda età, trasmesso in diretta il 20 ottobre su YouTube.

Professoressa Aina, perché avete sentito la necessità di indagare la relazione fra le traiettorie occupazionali e lo stato di salute in età avanzata?

Siamo partiti da un dato di fatto: la flessibilità ha permesso una maggiore crescita professionale e un miglior bilanciamento tra lavoro e famiglia, ma si è anche consolidata come uno strumento di espansione del precariato.

Il lavoratore del settore privato non gode sempre di una garanzia assoluta rispetto al proprio ruolo. Contratti instabili, interruzioni nella carriera, ingressi e uscite dal mercato del lavoro, periodi di disoccupazione, condizioni di lavoro con minori tutele: tutto ciò avrà delle influenze sulla condizione di salute di questi soggetti quando saranno più in là con gli anni?

Se la risposta fosse affermativa, dobbiamo iniziare a progettare delle misure preventive in grado di intervenire direttamente o indirettamente sulla salute dei lavoratori, in modo da posticipare l’insorgere delle patologie e prolungare gli anni in buona salute.

Su quali dati si basa la vostra ricerca?

Abbiamo utilizzato i dati della componente italiana dell’indagine EU- SILC (European Union Statistics on Income and Living Conditions), che ogni anno ci fornisce indicazioni sulle condizioni di vita di un campione rappresentativo degli abitanti di un dato Paese, inclusi la condizione sociale, il livello di istruzione, lo stato civile, il reddito, lo stato di salute dichiarato dai partecipanti e altro.

Da questo enorme database abbiamo estrapolato solo i cittadini italiani con età compresa fra i 45 e i 55 anni, ciascuno dei quali è stato osservato per quattro anni di fila durante l’arco temporale 2004-2017.

Il passaggio successivo è stato quello di agganciare a queste persone i dati INPS relativi all’intera carriera lavorativa, a partire dal primo rapporto di lavoro.

In questo modo, prendendo in considerazione solo coloro che hanno maturato almeno un’esperienza nel mercato del lavoro, abbiamo associato le condizioni di vita alla storia lavorativa, per capire se la seconda abbia avuto una influenza sulle prime e quali sono le variabili collegate al livello di salute dichiarato.

Qual è il quadro generale che emerge dalla vostra analisi?

In generale abbiamo osservato che le persone con lo stato di salute migliore sono anche quelle con la carriera lavorativa più stabile e meglio remunerata. Di contro, l’instabilità lavorativa e le condizioni economiche meno favorevoli si accompagnano a condizioni di salute peggiori nel tempo.

Inoltre dalle analisi descrittive sono emersi profili diversi per maschi e femmine. Lo stato di salute riportato dai lavoratori maschi è positivamente correlato con il reddito: sembrerebbe che essere attivi nel mercato del lavoro, avere un salario adeguato, ma soprattutto aver avuto maggiore continuità e condizioni lavorative più vantaggiose determini condizioni di salute migliori.

Questi effetti sono meno evidenti per la componente femminile. Secondo la nostra indagine le donne divorziate, separate, meno istruite o disoccupate riportano livelli medi di salute che tendono a peggiorare con l’avanzare degli anni. Fra tutte le categorie indagate, le persone con la salute peggiore sono donne e hanno un’età compresa fra i 50 e i 55 anni.

Sulle traiettorie occupazionali delle donne, tuttavia, abbiamo dati insufficienti, perché molte non hanno mai partecipato al mercato del lavoro e non siamo in grado di dire se ciò sia dipeso da una decisione volontaria o involontaria e neppure se le motivazioni fossero legate alla salute.

Ci sono ancora molti campi da esplorare, dunque. Quali sono le principali difficoltà di questo studio e su che cosa state lavorando per superarle?

La difficoltà principale è quella di stabilire le caratteristiche del nesso tra lavoro flessibile e salute a lungo termine. Pur avendo constatato che a certe condizioni di salute si associano determinate storie lavorative, non siamo in grado di stabilire la direzione della relazione: le persone lavorano perché sono in buona salute o sono in buona salute (anche) perché hanno un lavoro, un reddito e una vita sociale soddisfacente?

Inoltre per isolare le conseguenze della instabilità lavorativa sulla salute dei lavoratori dovremmo distinguere fra coloro che in un certo momento della loro vita escono dal mercato del lavoro per volontà propria, e i soggetti che invece subiscono la perdita del lavoro. A questo scopo in letteratura si prendono in considerazione gli shock esogeni: si tratta di eventi non controllabili, ad esempio la chiusura dello stabilimento presso cui un individuo è impiegato, evento che comporta un’uscita dal mercato del lavoro totalmente involontaria.

Ecco perché stiamo pensando di modellare nelle nostre analisi il ricorso alla cassa integrazione, uno strumento adottato dalle imprese durante una situazione economica di stagnazione, che porta ad un ridimensionamento delle opportunità lavorative e delle entrate monetarie dei lavoratori, e in alcuni casi alla chiusura delle imprese.

Nell’assetto socio-lavorativo delle economie evolute la modalità flessibile è sempre più diffusa. Quali sono secondo lei i vantaggi e gli svantaggi della flessibilità?

In generale la presenza di forme di flessibilità nel mercato del lavoro accresce le opportunità lavorative in media e, quindi, le possibilità di ingresso o rientro nel mercato.

Nel contempo però, spesso queste misure vengono associate a maggiore incertezza sul futuro, discontinuità lavorativa, minore tutela e remunerazioni più basse che non consentono quindi di fare sufficiente prevenzione o di adottare stili di vita più salutari. Tutti questi aspetti possono comportare un livello medio peggiore delle condizioni di salute in futuro.

Alla luce delle informazioni raccolte, quali indicazioni di natura sociale e politica possiamo trarre per favorire la sostenibilità del nostro Paese?

La ripercussione del lavoro sul benessere delle persone comporta un costo individuale e rappresenta un onere per la collettività, che deve farsi carico della malattia del singolo. Studi come il nostro vanno nella direzione di comprendere i meccanismi che determinano un peggioramento delle condizioni di salute, per cercare di rimuoverli o contenerli.
Se l’incertezza lavorativa e i trattamenti economici hanno un ruolo in questo processo, intervenire precocemente potrebbe alleggerire l’entità della spesa pubblica in sanità e indirettamente quella per la previdenza sociale, mantenendo attivi più a lungo gli individui nel mercato del lavoro.

Persone foto creata da shurkin_son – it.freepik.com

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