“Sai cos’è questo…? È il luogo dove il mondo esterno incontra il mondo che è dentro di te. Se non vanno d’accordo, è qui che lo senti. Allora ti sfreghi il naso imbarazzato per farti passare il prurito. Un naso come il tuo… è una gran dote. Fidati di lui. Quando ti mette in guardia, sta’ attento se non vuoi finir male. Ma se seguirai il tuo naso, farai molta strada.”
È con queste parole che il barcaiolo Tai, personaggio del romanzo “I figli della mezzanotte” dello scrittore indiano Salman Rushdie, descrive il grosso naso del piccolo Adam Aziz, che su di lui assume un aspetto patriarcale. Testimone dell’antica sapienza e della cultura un po’ magica di un’India che si sta rapidamente modernizzando, Tai capisce subito le potenzialità di quel naso, una sorta di finestra sul mondo esterno e una via d’ingresso nella memoria. Un naso non è da sottovalutare, e non lo è nemmeno il senso ad esso collegato, l’olfatto.
La riduzione dell’olfatto, un disturbo frequente?
Tradizionalmente, il senso dell’olfatto è stato meno oggetto di attenzione rispetto ad altri sensi più frequentemente alterati nell’anziano, come la vista e l’udito. Mentre questi tendono a deteriorarsi con il tempo nella maggior parte delle persone, l’olfatto è spesso dato per scontato, almeno fino a quando inizia anch’esso a mostrare i segni dell’età. La pandemia da COVID-19 ha tristemente portato alla luce un problema piuttosto diffuso nei soggetti infettati dal virus, cioè la riduzione o la perdita del senso dell’olfatto (in termini scientifici iposmia o anosmia, rispettivamente), tanto da farlo rientrare tra i criteri specifici che supportano la diagnosi di infezione. Nel caso di COVID-19, iposmia o anosmia non sono una prerogativa dei soggetti anziani e, indipendentemente dall’età, si presentano in più del 50% degli ammalati e possono persistere anche a distanza di mesi in circa il 20% dei soggetti come parte di quella che è ormai nota come sindrome “Long-COVID”.
COVID-19 a parte, è scientificamente dimostrato che il senso dell’olfatto declina con l’età, già a partire dai 50 anni, raggiungendo una prevalenza persino del 75% dopo gli 80 anni, anche se i dati cambiano molto in base a come sono stati raccolti (semplicemente chiedendo alla gente come sta il loro naso oppure con test clinici più approfonditi e standardizzati). Sembra inoltre che a ridursi non sia solo la capacità di percepire gli odori, ma anche quella di riconoscerli e discriminarli: ecco quindi un terzo termine medico, parosmia, che significa appunto alterazione della percezione olfattiva più che una sua riduzione.
Tra i fattori di rischio emergono, oltre all’età, il sesso maschile, l’etnia africana, l’abitudine al fumo e l’abuso di alcol. Infatti, una peculiarità del sistema olfattivo è che, a differenza di altri sensi come la vista e l’olfatto, i cui recettori sono ben protetti dall’ambiente esterno (nell’occhio e nell’orecchio interno), la mucosa olfattiva è continuamente esposta a fattori ambientali come il resto del tratto respiratorio ed è quindi più soggetta a danni causati da patogeni o agenti chimici nell’aria che inspiriamo. Curiosamente, l’esercizio fisico costante sembra associarsi a un rischio minore di disfunzione olfattiva, un motivo in più per mantenersi attivi anche in pensione.
Non è ancora ben chiaro il motivo del declino funzionale di questo importante senso, anche perché risulta piuttosto difficile e invasivo studiare approfonditamente il sistema olfattivo nell’uomo. Da una parte, la spiegazione potrebbe essere una fisiologica riduzione dell’efficienza della mucosa olfattiva legata all’età (ridotta proliferazione cellulare e creazione di un microambiente che favorisce l’infiammazione). D’altro canto, proprio a causa dell’età, la mucosa nasale potrebbe essere più suscettibile ai danni da agenti esterni, come infezioni virali o sostanze chimiche, che potrebbero riorganizzare la distribuzione dei recettori olfattivi e determinare iposmia, anosmia o parosmia.
Manca sale!
Anche se la perdita dell’olfatto potrebbe non sembrare un disturbo fastidioso tanto quanto quella di udito o vista, il mondo non è più lo stesso senza questa importante facoltà. Immaginate di entrare in un parco pubblico pieno di fiori e di non apprezzarne minimamente il profumo, o, più banalmente, di trovarvi in cucina di fianco a una caffettiera gorgogliante senza essere in grado di percepirne l’aroma e pregustare una buona tazzina di caffè con l’acquolina in bocca. Non sembrerebbe strano? La propria qualità di vita ne potrebbe risentire. E a proposito di acquolina in bocca, va considerato che questo senso è strettamente collegato a quello del gusto, la cui alterazione è nella maggior parte dei casi legata alla compromissione dell’organo “al piano di sopra”.
Il rapporto tra olfatto e gusto è in realtà ben più complesso di quanto si possa immaginare e non dipende solo dal fatto che cavità orale e nasale siano vicine di casa. I due sistemi sono infatti collegati anche a livello cerebrale. Secondo il neurobiologo Gordon Shepherd dell’Università di Yale, “i sapori non sono nel cibo ma vengono creati dal nostro cervello…per la maggior parte dal nostro sistema olfattivo”. Le molecole degli odori stimolano recettori chimici nel naso, che trasformano il segnale e lo inviano ai centri cognitivi del cervello, che a sua volta li traduce in vere e proprie immagini essenziali per l’esperienza completa del sapore. La percezione del gusto non coinvolge solo i sensi, ma anche memoria, emozioni e ricordi. Lo sapeva bene Marcel Proust, che nel suo romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” riscopre un frammento di infanzia ormai dimenticato grazie a un pezzetto di madeleine (pasticcino francese a base di mandorle) inzuppato in una tazza di tè.
Per chi considera il cibo anche come una fonte di felicità, perdere l’olfatto e di conseguenza anche il senso del gusto può essere quindi piuttosto invalidante, per non parlare dell’impatto dell’anosmia sulla sicurezza nella propria routine quotidiana, dove una fuga di gas o una semplice padella bruciacchiata dimenticata sul fuoco potrebbero trasformarsi in problemi ben più grandi. Nei casi più critici, le alterazioni del gusto direttamente collegate alla perdita dell’olfatto possono inoltre contribuire a uno stato di denutrizione, soprattutto nei soggetti più fragili che perdono interesse nell’alimentarsi con cibi che non sanno più di niente, oppure di malnutrizione nel senso di dieta poco equilibrata e con alcuni eccessi. Si ritiene infatti che una persona anziana necessiti di una quantità di sale da due a tre volte maggiore prima di riuscire a considerare il proprio piatto saporito e lo stesso rischio si ha con la quantità di zucchero in un’età dove il controllo glicemico tende a giocare qualche brutto scherzo.
Sentore di malattia
Al di là degli effetti sulla qualità di vita, alcuni studi recenti hanno fatto emergere l’ipotesi che iposmia o anosmia potrebbero essere dei campanelli di allarme per patologie neurodegenerative tipiche dell’anziano, come il morbo di Parkinson e le sue varianti o l’Alzheimer. L’idea nasce dall’osservazione che l’olfatto si riduce in quasi l’80% delle persone che, di lì a qualche anno, svilupperanno la malattia di Parkinson, ovvero nella fase prodromica della malattia.
Allo stesso modo, studi che hanno seguito nel tempo soggetti inizialmente privi di sintomi che in seguito hanno sviluppato declino cognitivo hanno visto che gli anziani con alterazioni dell’olfatto erano più propensi a transitare più rapidamente verso uno stato di demenza. Ma qual è il nesso? Va detto che la mucosa olfattiva, localizzata nella parte superiore delle cavità nasali, è in realtà molto vicina al sistema nervoso centrale e direttamente collegata ad esso attraverso fibre nervose che hanno origine nel naso, attraversano una sottile lamina ossea bucherellata come un setaccio all’apice della cavità nasale e raggiungono infine strutture profonde del cervello.
Nel caso del Parkinson, l’analisi della mucosa olfattiva prelevata in profondità mediante l’uso di endoscopi rigidi ha permesso di identificare l’accumulo di una forma alterata di α-sinucleina, la principale proteina coinvolta nello sviluppo della malattia, già nell’epitelio olfattivo stesso, facendo crollare la convinzione che le alterazioni del Parkinson siano una prerogativa del sistema nervoso centrale. Il meccanismo proposto è che la patologia abbia già inizio nella cavità nasale, promossa da uno stato infiammatorio a cui potrebbe persino contribuire un’alterazione della flora batterica nasale (una disbiosi), e che poi si diffonda in senso retrogrado come un effetto domino, fino a raggiungere i nuclei profondi del cervello, le aree tipicamente coinvolte nel Parkinson.
Un meccanismo simile potrebbe verificarsi durante lo sviluppo della malattia di Alzheimer, segno che iposmia e anosmia potrebbero essere utili segnali di allarme per predire il futuro sviluppo di queste malattie neurodegenerative e intervenire il più precocemente possibile.
C’è soluzione per la riduzione dell’olfatto?
Dal momento che iposmia e anosmia sono spesso sottovalutate anche in medicina, non ci sono ancora vere e proprie terapie basate su solide basi scientifiche per la cura di questo problema. Tuttavia, a parte alcuni interventi di tamponamento come l’uso di esaltatori di sapidità (miscele di additivi estratti o derivati da prodotti naturali per aumentare il sapore delle pietanze) per invogliare l’anziano a mangiare anche per piacere e non solo per nutrirsi, un approccio che ha riscosso qualche successo è il cosiddetto “training olfattivo”. Questa sorta di educazione o allenamento del proprio senso dell’olfatto, proposto per la prima volta da Thomas Hummel, non è altro che un programma di esposizione quotidiana a diversi odori selezionati da una gamma di molecole.
In un esperimento, Hummel ha dimostrato che, dopo un periodo di 12 settimane in cui i partecipanti venivano esposti a quattro diversi odori per due volte al giorno, rispetto ai soggetti non sottoposti al training si notava un miglioramento significativo della funzione olfattiva, misurata con test appropriati già in uso nella routine diagnostica. Molto probabilmente il motivo dell’efficacia del trattamento è il fatto che i recettori della mucosa olfattiva e il numero dei neuroni olfattivi dipende anche dagli stimoli esterni. In altre parole, più questi sono stimolati, più risultano attivi e pronti a rigenerarsi.
Alla luce di queste evidenze e soprattutto delle potenziali malattie di cui la perdita dell’olfatto potrebbe essere un’avvisaglia, il consiglio è quello di rivolgersi al proprio medico di fiducia non appena si ha il sentore che il proprio naso inizia a mostrare qualche segno del tempo e di rivolgersi poi a uno specialista otorinolaringoiatra per approfondire il problema e tentare di trovare una soluzione per evitare di “andare a naso” nella vita di tutti i giorni.
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