“…la vita chiede l’azione, oltre che il rilassamento; si può rimanere a proprio agio in una poltrona solo per un certo tempo, dopodiché l’impulso a muoversi assume forza imperiosa; e se non ci si può muovere quando si ha bisogno di farlo, il disagio è estremo.”
Nel bellissimo saggio “Risvegli”, da cui è stato tratto l’omonimo film con Robert De Niro, è così che il neurologo Oliver Sachs descrive metaforicamente la principale difficoltà di alcuni suoi pazienti affetti dai postumi di una grave epidemia di encefalite che colpì il mondo tra il 1917 e il 1927: l’incapacità di muoversi quando lo si desidererebbe con tutte le proprie forze. Sebbene i pazienti di Sachs non soffrano della forma classica di morbo di Parkinson ma di disfunzioni motorie che si possono riassumere con il termine “parkinsonismo”, questa descrizione è utile per comprendere la principale manifestazione di questa malattia neurodegenerativa che colpisce circa una persona su 100 a partire dalla sesta decade di vita: la disfunzione motoria.
La diagnosi di morbo di Parkinson è più che altro clinica e si basa su una classica triade di segni e sintomi: rigidità dei muscoli, tremore a riposo e bradicinesia o acinesia, ovvero un rallentamento dei movimenti volontari o addirittura l’incapacità di iniziarli, non a causa di una debolezza muscolare, ma proprio perché il cervello fa fatica a dare il comando, ad aprire il cancello ai segnali che stimolano il movimento. Come Oliver Sachs spiega magistralmente nel suo saggio, il malato di Parkinson vorrebbe muoversi, ma è come congelato, consapevolmente incapace di iniziare il movimento. Oltre a questi sintomi caratteristici, ci sono altri elementi a supporto della diagnosi, come il tipico gesto di “far pillole” o “contar monete” (vedi video) e l’instabilità della postura e dell’andatura.
La causa di tutto ciò è un’alterazione dei circuiti nervosi nelle regioni più profonde del cervello, in quelli che vengono chiamati i nuclei o gangli basali proprio perché si trovano alla base dell’encefalo. Senza entrare troppo in dettagli tecnici, basti sapere che queste aree hanno un ruolo fondamentale nell’inizio e nel controllo dei movimenti volontari. Nel morbo di Parkinson, si osserva una degenerazione dei neuroni pigmentati di queste regioni, che determina una diminuzione dei livelli di dopamina, principale neurotrasmettitore coinvolto in questo circuito responsabile del controllo motorio. Il danno neuronale è dovuto soprattutto a una proteina chiamata α-sinucleina che, a differenza della sua forma normale, nel Parkinson assume una conformazione anomala, mal ripiegata, che ne determina l’accumulo patologico nei neuroni.
Forse però l’aspetto più interessante è il fatto che il morbo di Parkinson, come l’Alzheimer, è spesso preceduto da una fase cosiddetta prodromica, una finestra temporale in cui la persona non mostra ancora i tipici segni della malattia ma sperimenta già alcune avvisaglie, spesso talmente banali e poco specifiche della patologia da essere ignorate. Nel caso del Parkinson, si tratta della stipsi e dell’iposmia o anosmia, ossia la riduzione o perdita del senso dell’olfatto. Ebbene sì, quasi l’80% dei pazienti con morbo di Parkinson ha presentato alterazioni della motilità intestinale e della capacità di percepire gli odori anche diversi anni prima di ricevere la diagnosi. Gli scienziati hanno quindi iniziato a cercare delle spiegazioni. La cavità nasale è in prossimità del sistema nervoso, quindi una sua possibile influenza non appare così strana, ma come si spiega la relazione naso-cervello? E l’intestino? Come può un organo così lontano e che apparentemente non ha nulla a che fare con il funzionamento del cervello essere coinvolto nello sviluppo di una malattia neurologica?
Per dare una risposta a questi quesiti potrebbe venirci in aiuto un argomento il cui interesse è maturato negli ultimi anni, quello del ruolo dei microrganismi che abitano il nostro corpo e che possono comportarsi alternativamente come coinquilini benefici o potenziali nemici a seconda della loro composizione e del delicato equilibrio del microambiente in cui vivono. Incredibilmente, il nostro corpo è colonizzato da bilioni di microrganismi, prevalentemente batteri, circa 10 volte più numerosi delle cellule umane, e l’insieme dei loro geni, o microbioma, è fino a 150 volte più abbondante del nostro genoma! Il tratto gastrointestinale, la cute e le vie aeree, regioni che sono direttamente in contatto con l’ambiente esterno, sono le aree più colonizzate e ognuna presenta una particolare composizione del microbiota, stabilita già a partire dalla nascita e modulata nei primissimi mesi di vita fino a giungere, intorno ai tre anni, a un “core microbico” stabile, una comunità individuo-specifica che rimarrà costante più o meno per tutta la vita, a meno che fattori di rischio come una dieta poco sana o ripetuti trattamenti antibiotici la alterino temporaneamente o permanentemente.
È ormai noto che il microbiota intestinale sia direttamente e indirettamente collegato al sistema nervoso centrale in modo bidirezionale attraverso quello che viene chiamato asse intestino-cervello. Diversi prodotti del metabolismo batterico possono comportarsi da neurotrasmettitori e influenzare a distanza il sistema nervoso. Quest’ultimo, a sua volta, invia diversi segnali all’intestino per regolarne la motilità, la secrezione di muco e la composizione dei microrganismi enterici, che sono dotati di recettori specifici per questi neurotrasmettitori. Ciò significa che, almeno in parte, anche il sistema nervoso ha voce in capitolo nella scelta del microbiota che colonizza il nostro intestino.
Uno studio giapponese ha messo a confronto il microbiota di più di 200 pazienti con morbo di Parkinson con quello dei loro coniugi. La scelta dei controlli sani non è stata casuale: scegliere le mogli o i mariti come riferimento ha permesso infatti di eliminare eventuali fattori ambientali che avrebbero potuto influenzare la composizione del microbiota (come abitudini alimentari o luogo geografico di residenza), dando per scontato che i membri di una coppia condividessero stili di vita molto simili. Gli autori dello studio hanno dimostrato un’alterazione significativa di ben 10 generi e 4 famiglie batteriche, con un aumento dei batteri pro-infiammatori (ad esempio Akkermansia) e una riduzione di quelli che normalmente avevano un effetto protettivo e anti-infiammatorio (come Roseburia e Faecalibacterium).
Un discorso simile si può fare anche per i microrganismi delle cavità nasali. La relazione tra un’alterazione del microbiota delle vie aeree e alcune patologie respiratorie era già emersa in passato, per esempio evidenziando una possibile associazione con malattie come l’asma o la rinosinusite cronica. Tuttavia, l’interessante e originale scoperta del collegamento tra microbiota nasale e malattie neurologiche come il Parkinson è piuttosto recente. Sono molto pochi gli studi dedicati in modo specifico a questo argomento e a dire il vero i primi risultati sono apparsi poco promettenti. Il vero problema è che, rispetto al microbiota intestinale, quello nasale è un po’ più difficile da studiare a causa del rischio di contaminazione ambientale quando si preleva il campione, soprattutto quando il prelievo viene fatto tramite un semplice tampone nasale, che si ferma all’inizio delle cavità. Quando però il campionamento è stato effettuato a livello della fessura olfattiva, cioè molto più in profondità, tramite l’utilizzo di un endoscopio rigido, i risultati sono apparsi molto più interessanti.
Si è visto per esempio che i pazienti con morbo di Parkinson tendevano ad avere quantità maggiori di specie pro-infiammatorie tra cui Moraxella catarrhalis e Ralstonia insidiosa rispetto ai controlli sani. Inoltre, quelli con concentrazioni maggiori di Moraxella catarrhalis e altri batteri pro-infiammatori tendevano a mostrare sintomi più gravi. Addirittura, alcune specie batteriche sembrano associarsi in modo diverso alla severità dei sintomi motori o posturali. In altre parole, la tipologia del microbiota nasale potrebbe predire la forma di Parkinson che il paziente sperimenterà, per esempio suggerendo se predominerà l’instabilità posturale piuttosto che la difficoltà di movimento e quanto questi sintomi saranno gravi.
Ma in cosa consiste veramente la connessione tra microbiota e Parkinson? Come può un gruppo di microrganismi indurre dei cambiamenti tali da generare una vera e propria malattia? Per spiegare l’ipotesi proposta da alcuni ricercatori, vale la pena considerare di nuovo il ruolo dell’α-sinucleina. Questa proteina presenta infatti una curiosa peculiarità: pare che la sua forma alterata sia in grado di interagire con le forme ancora normali, inducendone un cambiamento conformazionale e trasformandole a loro volta in proteine patologiche, in una sorta di effetto domino che si può propagare in diverse aree del cervello o che può persino coinvolgere regioni distanti dal sistema nervoso stesso. Non a caso, molti esperti ritengono che il morbo di Parkinson sia l’espressione tardiva di una “sinucleinopatia” sistemica e in questo modello il ruolo del microbiota non apparirebbe più così strano. Alcune scoperte recenti hanno identificato l’α-sinucleina patologica nel sistema nervoso enterico e nel bulbo olfattivo ancora prima che questa si depositasse nei neuroni del sistema nervoso centrale e questo fenomeno sembrerebbe contribuire all’insorgenza della costipazione e dell’iposmia/anosmia riferite da molti pazienti prima dello sviluppo del Parkinson vero e proprio. L’ipotesi, quindi, è che l’alterazione del microbiota intestinale e nasale in senso pro-infiammatorio possa favorire l’accumulo locale di α-sinucleina mal ripiegata e che questa possa poi alterare altre molecole vicine in un effetto domino a ritroso che giunge fino all’encefalo attraverso l’asse intestino-cervello e naso-cervello. La disbiosi, cioè l’alterazione della composizione fisiologica dei microrganismi che abitano in simbiosi con il nostro corpo, rappresenterebbe così un fattore di rischio e addirittura un fenomeno capace di innescare direttamente lo sviluppo della malattia.
Naturalmente c’è ancora molta strada da fare nella ricerca scientifica su questo tema e occorre essere cauti nel trarre conclusioni troppo affrettate. Tuttavia, questi studi forniscono già spunti interessanti in un’ottica di medicina personalizzata, un termine che va molto di moda negli ultimi anni e che vuole rivoluzionare il concetto tradizionale di malattia come entità unica e uguale per tutti e per questo richiedente uno specifico trattamento, sostituendolo con un modello dove ogni patologia può essere diversa da paziente a paziente e dove perciò la terapia deve adeguarsi anche alle peculiarità della persona ed essere modulata di conseguenza. Nel caso specifico della malattia di Parkinson, con le dovute precauzioni, approfondire la conoscenza della composizione del microbiota intestinale e nasale potrebbe essere uno strumento utile per la diagnosi precoce di soggetti a rischio (magari per la storia familiare) o che presentano già dei campanelli di allarme come stipsi o alterazioni olfattive. Non solo, potrebbe aiutare a fare previsioni sullo sviluppo della malattia e sulla gravità dei sintomi, supportando i clinici nella scelta delle terapie più appropriate e maggiormente centrate sulla persona che hanno di fronte.
Riferimenti bibliografici
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