Quando un anziano viene ricoverato in ospedale, per garantire una presa in carico efficace e finalizzata al mantenimento della qualità della vita, gli operatori sanitari devono fare i conti con le caratteristiche di questa fase della vita. La multimorbidità, la polifarmacia, la fragilità e la complessità del paziente anziano rappresentano una sfida per un approccio alla medicina (alla ricerca, alla didattica e all’ assistenza) che si è sempre focalizzato sulla singola malattia
Abbiamo chiesto al professor Mario Pirisi, professore ordinario di Medicina Interna presso l’Università del Piemonte Orientale (UPO) e direttore della SCDU Medicina Interna 1, AOU Maggiore della Carità di Novara, di spiegarci quali sono le caratteristiche e le criticità del paziente anziano ricoverato in ospedale.
Professore, che cosa si intende per multimorbidità nell’anziano?
La multimorbidità, ovvero il sovrapporsi di due o più malattie o condizioni mediche nella stessa persona è, almeno in parte, uno degli effetti del successo della medicina nel trattare le malattie. È sempre più frequente che un malato cronico conviva con la sua malattia fino alla vecchiaia, e a questa prima condizione possono aggiungersene altre, non necessariamente correlate alla prima. La prevalenza della multimorbidità comprensibilmente cresce al crescere dell’età, anche se il numero assoluto di persone con multimorbidità è maggiore sotto che non sopra i 65 anni. Non si tratta quindi soltanto di un problema degli anziani, ma per gli anziani e i grandi anziani la situazione può essere ancora più complessa: la comorbidità infatti va pensata anche in termini di burden of illness or disease, l’impatto globale che questa ha sulla vita.
Il fardello che la somma di più malattie porta con sé va calcolato tenendo conto anche di altre caratteristiche come l’età, il sesso, la fragilità e lo stato di salute in generale. Questo carico pesa sulle risorse individuali, fisiologiche ma anche psicologiche e sociali. Le malattie interagiscono con le diverse caratteristiche fisiologiche, psicologiche ma anche socio-economiche, ambientali, culturali del paziente rendendolo un paziente “complesso”.
Prendiamo ad esempio una persona affetta da broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), una classica (e grave) malattia che interessa principalmente i fumatori. Una sua comune comorbidità è lo scompenso cardiaco, che può realizzarsi per motivazioni che facilmente hanno a che fare con le cause della BPCO. Ma la complessità di questa persona può facilmente estendersi in funzione di altre malattie non necessariamente collegate (ad es., un’epatite cronica da virus C). Ipotizziamo si tratti di un pensionato 82enne di basso reddito, la cui compagna di una vita è morta tre mesi prima lasciandolo solo e depresso (l’unico figlio vive all’estero) e nella necessità di affrontare questioni della vita di tutti i giorni alle quali non è abituato a dare risposte (es., cucinare): di qui, una perdita importante da un punto di vista nutrizionale. È chiaro che la gestione della semplice BPCO per questo malato non può bastare.
La dimensione psico-sociale con il paziente anziano non può essere trascurata, dunque. Come può il medico a conoscere questi aspetti della vita del paziente?
Oggi si sta sempre più sviluppando un approccio al paziente attento al suo contesto in cui il primo passo è quello di stabilire una buona relazione medico-paziente. Si comincia dall’inizio: come si viene accolti in ambulatorio? Ci sono norme che possiamo definire di “buona educazione” – salutare, presentarsi, usare modi gentili e rispettosi. A queste basta aggiungere poco altro per iniziare a costruire la relazione: io spesso comincio chiedendo “Ha trovato difficoltà nel parcheggiare” – qui a Novara è sempre un problema – e da questa domanda posso emergere spunti importanti che riguardano la mobilità, l’indipendenza, la rete di relazioni.
Si tratta di conversare un po’ con il paziente?
Si tratta di umanizzare la medicina. A fronte di un disturbo, dobbiamo comprendere qual è l’impatto sulla vita di quella persona, prima ancora di aver capito qual è la causa del suo disturbo.
Basta fare una prova: preferisco essere descritto come il paziente che anni fa ha subito un intervento di colecistectomia o come il professore che ha insegnato a lungo a tanti studenti ad essere dei buoni medici?
Certo poi ci sono difficoltà oggettive, visto che i primi 10 minuti di una visita li passiamo a compilare burocrazia al computer. In questo caso, per esempio, definire da subito il tempo disponibile e focalizzare l’obiettivo della visita può essere utile. Non possiamo dimenticare che umanizzare la medicina migliora la qualità della cura.
La compresenza di più malattie nell’anziano comporta la compresenza di più farmaci: qual è l’impatto della polifarmacia?
In primo luogo la polifarmacia nei pazienti anziani aumenta il numero di errori nell’assunzione della terapia: +16% per ogni ulteriore farmaco. Aumentano inoltre le prescrizioni ad alto rischio – i farmaci ad alto rischio sono quelli che possono provocare danni significativi quando utilizzati in modo scorretto – e il rischio di interazioni e di effetti avversi. Per tutte queste ragioni, è necessario considerare, nel contesto opportuno, alla deprescrizione. La deprescrizione è il processo pianificato e sotto supervisione medica di riduzione della dose o interruzione di un trattamento che potrebbe causare danni o non essere più di beneficio. Si tratta di una strategia particolarmente importante nell’anziano, per la quale esistono protocolli e siti appositamente dedicati per approfondire il tema (ad es., deprescribing.org).
Comorbidità e polifarmacia come sono affrontate nella clinica?
La medicina basata sulle evidenze ci ha abituato a un certo grado di certezza. Più complessità però significa meno certezze. Riprendiamo l’esempio dello scompenso cardiaco: le linee guida per il trattamento di questa patologia consigliano un determinato trattamento, un trattamento la cui efficacia nel prolungare l’attesa di vista è dimostrata attraverso trial clinici. Un trial clinico generalmente coinvolge persone che non presentano comorbidità, perché attraverso un modello semplificato il disegno di ricerca permette di rilevare in modo più chiaro i meccanismi e le correlazioni tra una molecola e il suo bersaglio. Ma nella realtà raramente si trovano pazienti che hanno soltanto uno scompenso cardiaco, senza altre concause, tanto che a volte diventa persino difficile reclutare persone idonee a partecipare a questi trial clinici.
Inoltre noi clinici ci troviamo di fronte a un quadro in cui non è semplice interpretare cosa sta succedendo a fronte della somministrazione di molti farmaci e della sovrapposizione di più malattie, qual è il responsabile di determinati effetti e meccanismi.
Che cosa si intende per “fragilità nell’anziano”?
Qualcuno direbbe che la fragilità è come il doping: difficile da definire in termini rigorosi, ma tutti sanno cos’è. La definizione ufficiale descrive la fragilità come “una sindrome medica a cui contribuiscono molte cause, caratterizzata da diminuite forza, resistenza e funzione” . Facile da riconoscere – i segnali tipici sono sarcopenia, debolezza (forza di presa), spossatezza, basso livello di attività e camminata lenta – la fragilità è un costrutto importante perché indica una traiettoria verso la perdita di autonomia. E sappiamo quanto per tutti sia importante mantenere la propria indipendenza, tanto che per molti è perfino peggio che morire!
Sembra che con l’aumentare della complessità, le definizioni scientifiche si facciano più generiche. Possiamo provare ad approfondire ancora il concetto di fragilità?
Da un punto di vista scientifico, per comprendere meglio questo costrutto può essere utile pensarlo come una “cipolla” con tre strati. Il primo strato, quello più superficiale è quello della presentazione clinica: multiple malattie croniche, ridotte funzioni fisiche, ridotta mobilità, alterazione cognitiva, basso livello di attività, lentezza, depressione… A questo livello si collocano anche le cosiddette “sindromi geriatriche” , tutte quelle condizioni cliniche che non rientrano in una specifica categoria patologica, ma hanno un impatto a livello di funzionalità e di qualità della vita per gli anziani. Per esempio le cadute, il delirium, il declino cognitive e funzionale, I decubiti, la compromissione degli organi di senso e l’incontinenza.
Il secondo livello, che si avvicina di più al cuore della fragilità, è quello dei biomarker: dalla semplice descrizione clinica cerchiamo di avvicinarci attraverso questi indicatori ai meccanismi che ne sono alla base: infiammazione, calo di peso, neurodegenerazione, squilibrio energetico, deficit ormonali…
Infine il terzo livello è quello dei meccanismi biologici che si ipotizza siano alla base della fragilità: disfunzione mitocondriale, stress, ossidativo, danno al DNA, senescenza, metilazione, esaurimento delle cellule staminali, ecc.
Cosa succede al paziente fragile in ospedale?
Il paziente fragile arriva in ospedale in seguito ad un episodio acuto e il nostro compito è quello di evitare che diventi ancora più fragile in seguito al ricovero. Quello che succede in genere, purtroppo, è che l’anziano diventa più dipendente dagli altri, tanto che spesso passa direttamente dall’ospedale alla casa di riposo. Un anziano ricoverato generalmente viene tenuto a letto perché è più facile da gestire, si evita il rischio di cadute. In breve tempo si riscontra una perdita nutrizionale, disorientamento, sindromi da allettamento… più rimane in ospedale più “perde di stoffa”.
“Perle” per una buona gestione dell’anziano in ospedale:
Rosanne M. Leipzig durante il Meeting della Society of Hospital Medicine del 2016 ha descritto le “Perle” per una buona gestione dell’anziano in ospedale:
• Conoscere le ADL (Activities of Daily Living) «di base» del paziente (Due settimane prima del ricovero)
• Il riposo a letto è per «i morti e pochi altri»
• Togliere cateteri (urinari, venosi)
• Pensare a reazioni avverse da farmaci in presenza di nuovi sintomi
• Valutazione giornaliera per delirium
• Stato mentale alterato = delirium fino a prova contraria
Come evitare che il paziente fragile diventi più fragile in ospedale?
Per evitare questa traiettoria, che conduce alla perdita di autonomia e ad un aumento di mortalità, in ospedale bisogna innanzitutto garantire l’attività fisica, ottimizzare l’alimentazione e procedere con la riconciliazione terapeutica, o deprescrizione.
Ma in generale, ci sarebbero dei cambiamenti più radicali che stanno diventando impellenti, perché la transizione demografica che stiamo vivendo è incompatibile con l’organizzazione stessa degli ospedali: l’ospedale non è fatto per l’anziano. Oggi quando viene ricoverato un paziente anziano in Medicina Interna dobbiamo di volta in volta chiamare gli specialisti per un consulto per le diverse patologie che si presentano: si trattano i problemi del paziente un pezzo alla volta, senza tenere conto dell’insieme. Perfino l’architettura degli ospedali rispecchia questo approccio, con i reparti localizzati in edifici o padiglioni diversi. In ambito anglosassone si stanno diffondendo le ACE (Acute Elderly Care) Units, reparti di cure intensive per gli anziani in cui uno staff interdisciplinare prende in carico il paziente anziano nel momento dell’episodio acuto, con un piano di cura integrato e nell’ottica di dimetterlo al più presto, senza che abbia perso indipendenza o peggiorato le sue funzionalità.
Che cosa consiglierebbe ai familiari di un anziano fragile
Difficile dare un consiglio. La situazione delle famiglie è molto complicata. Un paziente con demenza che viene ricoverato per la frattura di un femore, ma si scopre che è diabetico. Quanto può essere difficile gestire una situazione come questa in un contesto familiare, in cui il caregiver lavora, ha una sua famiglia, suoi bisogni e aspettative di vita. In Italia abbiamo risposto a questo problema con la popolazione nascosta costituita dalle badanti, una risposta privata parzialmente coperta dal sostegno sociale (l’accompagnamento), ma non c’è una vera e propria presa in carico del sistema. Per questa situazione di difficoltà che vivono le famiglie l’unico consiglio che mi sento di dare è quello di cercare di costruire con l’equipe una buona alleanza terapeutica, valutando bene tutto quello che l’ospedale e il territorio offrono in termini di risorse.
L’educazione terapeutica che possiamo offrire in reparto è molto importante e può migliorare la gestione dell’anziano, ma non esistono soluzioni magiche e il percorso che seguirà il ricovero può essere molto difficile.
Il sogno di ogni geriatra è il paziente ultranovantenne che muore all’improvviso, ucciso da un colpo di pistola dall’amante gelosa. La realtà dei dati epidemiologici racconta un’altra storia, che prevede anni di malattia e di disabilità. Prendersi cura del paziente anziano è un lavoro complicato, sia per noi medici sia per i caregiver: credo che la collaborazione sia fondamentale per portare avanti questo lavoro in modo meno complicato.
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