Lavorare meno ore, a parità di stipendio, fa bene alla salute?
Nei paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), la settimana lavorativa è composta in media da 37 ore, ma esistono diverse realtà dove questo limite è superato o modulato negativamente dalla carenza di personale, con risvolti fortemente negativi sullo stress, sulla salute cardiovascolare, interferenze nella vita privata, nonché correlato a maggiore assenteismo.
Nonostante il recente interesse mediatico, poco si conosce sugli effetti bio-psico-sociali di una riduzione dell’orario lavorativo. A tale proposito, i ricercatori dell’Università di Torino (UNITO) hanno eseguito una revisione sistematica della letteratura scientifica a partire dal 2000, traendo interessanti conclusioni.
Sono stati selezionati 7 importanti studi nordeuropei che paragonavano gli effetti sulla salute con la riduzione dell’orario di qualsiasi lavoro e a parità di retribuzione, di circa il 20-25%. La selezione degli studi ha principalmente incluso soggetti sani dipendenti di strutture sanitarie o socio-assistenziali, con un follow-up medio di circa 2 anni.
I risultati hanno evidenziato un lieve miglioramento dei sintomi cardio-respiratori nei gruppi sperimentali rispetto ai gruppi di controllo. Altri risultati più rilevanti, invece, hanno mostrato la riduzione del dolore muscolo-scheletrico e l’aumento della “salute percepita”. I dati su questi aspetti sono però ancora pochi e, pur avendo un possibile risvolto su sintomi fisici specifici, restano da determinare attraverso ulteriori studi futuri più ampi.
Al contrario, lo stress generale, compresi la “fatica mentale” e la qualità/quantità del sonno, sono stati gli esiti più frequentemente indagati, risultando significativamente migliorati nei gruppi sperimentali, probabilmente anche a causa del maggior tempo libero da dedicare a se stessi.
La qualità del lavoro percepita, forse anche a causa del disegno stesso degli studi (effetto trial), è risultata sempre migliore, in termini sia di produttività che di interazioni positive tra colleghi con minor interferenze nella vita privata, anche con piccole influenze positive sulla richiesta di congedi di malattia.
Il maggior tempo libero veniva speso dai partecipanti per aumentare le relazioni nella vita privata, ma solo parzialmente per migliorare i propri stili di vita come alimentazione ed attività fisica. Analogamente, nei gruppi sperimentali non sono stati trovati biomarcatori significativi per una salute migliore.
In conclusione, nonostante il tema sia contemporaneo, i limiti di questa revisione sono certamente i pochi studi disponibili e selezionati (solo scandinavi), il loro particolare disegno, in tutela del gruppo sperimentale, nonché l’esclusiva area socio-sanitaria. Perciò i risultati non sono facilmente generalizzabili alla popolazione generale.
Certamente, però, lo studio ha dimostrato che la riduzione dell’orario di lavoro ha influenze positive sullo stress e su tutte le sintomatologie ad esso collegate, ma i parametri connessi alle abitudini, allo stile di vita e quindi alla salute, sono stati scarsamente modificati dai gruppi sperimentali. Se ne può concludere che il maggior tempo libero da solo probabilmente non è abbastanza se non determina un parallelo miglioramento dei fattori di rischio, tramite interventi mirati, responsabili di un potenziale significativo impatto sulla salute.
A cura di Agatino Sanguedolce e Carmela Rinaldi
Bibliografia