La leucemia linfatica cronica è un tumore del sangue caratterizzato da un accumulo di linfociti B maturi nel sangue periferico, negli organi linfatici, come i linfonodi e la milza, e nel midollo osseo, che rappresenta la “fabbrica” di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. I linfociti sono le cellule del sistema immunitario in grado di sorvegliare l’organismo e di attivare le difese contro i batteri, i virus e contro le cellule tumorali; si distinguono in linfociti B o T in base al tipo di risposta immunologica che sono in grado di attivare.
La leucemia linfatica cronica è la forma di leucemia più frequente nel mondo occidentale, colpisce maggiormente gli uomini rispetto alle donne ed è tipica dell’anziano. L’età media alla diagnosi è attorno ai 70 anni, e circa il 40% dei casi è diagnosticata a un’età >75 anni, mentre meno del 10% è diagnosticata prima dei 50 anni. La malattia è detta “cronica” perché spesso ha un decorso molto lento, senza sintomi o disturbi per il paziente e senza necessità di avviare una terapia.
Cause
Le cause della leucemia linfatica cronica sono sconosciute. Sappiamo che uno di questi linfociti (un linfocita B) subisce una trasformazione maligna e produce un clone linfocitario, cioè un insieme di cellule tutte uguali tra loro che non rispondono più ai normali stimoli fisiologici, diventano immortali, continuando a riprodursi e ad accumularsi. Non sono stati identificati fattori di rischio modificabili dall’individuo, ma diversi studi hanno dimostrato che fattori genetici possono predisporre allo sviluppo della malattia.
Sintomi
La maggior parte dei casi di leucemia linfatica cronica è asintomatica, caratterizzata da un decorso indolente che non richiede trattamento. Circa il 50 % di casi di leucemia linfatica cronica viene diagnosticato per caso, nel corso di un esame del sangue eseguito per un’altra ragione, oppure perché si nota un linfonodo ingrossato nel collo, nelle ascelle o all’inguine oppure perché si evidenzia all’emocromo la presenza di una linfocitosi persistente, cioè un numero di linfociti nel sangue superiore a 5.000/mmc che non diminuisce nel tempo.
Qualora presenti, i sintomi più frequenti sono legati all’accumulo dei linfociti alterati a livello dei linfonodi, evidenziando quindi:
• adenopatia generalizzata: i linfonodi appaiono di dimensioni aumentate e generalmente non sono dolorosi al tatto; è possibile anche l’ingrossamento della milza (splenomegalia) e del fegato (epatomegalia).
I linfociti malati si possono però accumulare anche a livello del midollo osseo, che rappresenta la “fabbrica” di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine, manifestandosi attraverso:
• anemia (livelli di emoglobina inferiori alla norma) con possibile senso di stanchezza, scarsi livelli di attenzione, inappetenza o perdita di peso, cute pallida, difficoltà respiratorie e battito cardiaco accelerato;
• piastrinopenia (livelli di piastrine inferiori alla norma) con possibile presenza di lividi o emorragie anche a seguito di piccoli traumi o presenza di macchioline rosse (dette petecchie) agli arti inferiori o a livello del cavo orale;
• neutropenia (livelli di neutrofili inferiori alla norma) e stato di immunodeficienza, con possibile sviluppo di infezioni ricorrenti.
Circa 5 pazienti su 100 presentano anche disturbi autoimmunitari, cioè producono anticorpi contro il proprio organismo (autoanticorpi), in particolare contro le altre cellule del sangue, che vengono quindi distrutte (anemia emolitica e piastrinopenia immunologica).
Diagnosi
Per giungere a una diagnosi corretta è necessaria una valutazione combinata di diversi esami:
• esami del sangue: l’emocromo e la formula leucocitaria che mostri una linfocitosi persistente, cioè un numero di linfociti nel sangue superiore a 5.000/mmc che non diminuisce nel tempo;
• valutazione morfologica dello striscio periferico: l’osservazione dello striscio di sangue al microscopio mostra spesso un’alterazione tipica della malattia, ossia la presenza di piccoli linfociti a cromatina addensata e le “ombre di Gumprecht”, che rappresentano linfociti rotti durante la preparazione dello striscio a causa di una intrinseca fragilità;
• citofluorimetria: è un test di laboratorio che consiste nell’analisi di cellule ematiche, offrendo un quadro dettagliato dei tipi e dei livelli di cellule presenti nel midollo osseo. L’analisi immunofenotipica è in grado di caratterizzare le molecole presenti sulla superficie delle cellule e consente di porre diagnosi in presenza di un’espansione clonale di elementi CD19+, CD5+, CD23+, CD200+ e debole espressione delle immunoglobuline di superficie (sIg).
Una volta confermata la diagnosi, gli esami necessari per definire lo stadio della malattia sono i seguenti:
• esami ematici completi di LDH, dosaggio delle immunoglobuline, test di Coombs, dosaggio della beta2microglobulina;
• radiografia del torace ed ecografia dell’addome, o solo in casi selezionati la TC (tomografia assiale computerizzata) di collo, torace, addome per valutare le linfadenopatie profonde, nel sospetto di una malattia aggressiva che necessiti di trattamento.
La biopsia dei linfonodi non viene eseguita routinariamente ma può essere utile nei casi dubbi in cui non si riesca a formulare la diagnosi ed è consigliata quando vi sia un sospetto di evoluzione della leucemia linfatica cronica verso un linfoma aggressivo.
Classificazione
La leucemia linfatica cronica è una malattia dal decorso variabile: alcuni pazienti possono mantenersi stabili senza necessità di trattamento per più di 10 anni, mentre altri possono andare incontro a un rapido aggravamento. Esistono diversi sistemi di stadiazione, che assegnano cioè uno stadio alla malattia in base a semplici caratteristiche cliniche quali la presenza di anemia, piastrinopenia, splenomegalia e/o linfadenopatie.
Terapia
Nella maggior parte dei casi, i pazienti affetti da leucemia linfatica cronica si mantengono asintomatici e senza necessità di trattamento per molti anni; in questi casi l’approccio che si utilizza è quello “watch and wait” (letteralmente “guarda e aspetta”, e nel frattempo si effettuano controlli periodici dell’andamento della malattia). Nei casi in cui la malattia diventi sintomatica, con necessità quindi di trattamento, a oggi sono presenti diversi approcci terapeutici. La scelta viene fatta in base all’età del paziente, alle malattie concomitanti e alle caratteristiche biologiche della malattia.
I principali approcci terapeutici sono:
• FCR: fludarabina-ciclofosfamide-rituximab, un approccio combinato tra chemioterapia e l’anticorpo monoclonale anti CD20 (ovvero la cosiddetta chemio-immunoterapia). Questo approccio è preferito per i pazienti giovani con caratteristiche molecolari favorevoli;
• il rituximab è l’anticorpo monoclonale più utilizzato, ma oggi vi sono anche altri anticorpi antiCD20, quali ofatumomab e obinotuzumab, che si possono utilizzare in combinazione alla chemioterapia;
• bendamustina + rituximab;
• clorambucile + anticorpo monoclonale (rituximab/obinotuzumab/ofatumumab).
Recentemente sono stati introdotti nuovi farmaci, che agendo su un bersaglio preciso (target therapy) in modo mirato e intelligente, hanno completamente cambiato la prognosi e la fattibilità delle terapie nei pazienti con leucemia linfatica cronica. Tra questi si riconoscono:
• ibrutinib (inibitore irreversibile della tirosin-chinasi di Bruton), utilizzato in monoterapia nel trattamento dei pazienti con delezione del braccio corto del cromosoma 17 (alterazione genetica associata a una prognosi infausta) e nei pazienti anziani che presentano numerose comorbilità che quindi non sono candidati ai trattamenti standard chemioimmunoterapici;
• venetoclax (inibitore della proteina BCL2, che ha un ruolo centrale nella sopravvivenza del clone leucemico), utilizzato in monoterapia o in combinazione con il rituximab;
• idelalisib (un inibitore dell’enzima PI3K-delta) utilizzato in associazione con il rituximab per il trattamento dei pazienti già sottoposti ad almeno una terapia in precedenza oppure in presenza di una delezione 17p o una mutazione TP53 in pazienti non idonei alla chemioimmunoterapia.
Attualmente, l’approccio terapeutico “chemo-free”, ovvero con farmaci molecolari intelligenti, prevale in termini di utilizzo rispetto all’approccio chemioimmunoterapico del passato.
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