Affrontare il tema della malattia e delle scelte di fine vita non è mai semplice. Spesso tendiamo a rimandare queste riflessioni, quasi fossero lontane o irrilevanti per il presente. Ma cosa accadrebbe se un giorno non fossimo più in grado di esprimere la nostra volontà sulle cure da ricevere? Chi prenderebbe decisioni al posto nostro? Come si declina, in ambito terapeutico, il diritto all’autodeterminazione che ci spetta in quanto cittadini?

Per rispondere a questi interrogativi, la legge 219/2017 ha introdotto strumenti giuridici fondamentali, come il consenso informato, le disposizioni anticipate di trattamento e la pianificazione condivisa delle cure. Questi strumenti consentono di dichiarare in anticipo le proprie decisioni in materia terapeutica, garantendo che la volontà individuale venga rispettata anche in situazioni di incapacità decisionale. In questo articolo esploreremo come utilizzarli per esercitare pienamente il diritto all’autodeterminazione, soprattutto nel delicato contesto del fine vita.

Un cambiamento epocale nella medicina: il ruolo della legge 219/2017

La medicina è cambiata profondamente negli ultimi decenni: il panorama clinico, un tempo dominato da malattie acute, vede oggi la prevalenza di patologie croniche e degenerative. Questo cambiamento è stato accompagnato dall’avvento delle nuove tecnologie biomediche, che hanno aumentato significativamente la speranza di vita, consentendo di intervenire su condizioni un tempo considerate fatali. Tuttavia, il progresso tecnologico ha anche messo in luce le sfide di un sistema sanitario non sempre pronto a rispondere alle esigenze di una popolazione che vive più a lungo e con malattie più complesse, come quelle neurodegenerative.

Parallelamente al progresso medico-scientifico, il rapporto tra medico e paziente ha subito un cambiamento radicale. Il modello paternalistico, in cui il medico prendeva decisioni unilaterali sulle cure del paziente, è stato progressivamente superato. Oggi si promuove un approccio aperto e condiviso, che valorizza l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. Questa evoluzione riflette una crescente attenzione ai diritti individuali e alla centralità della persona nel percorso di cura.

La necessità di regolamentare questo nuovo rapporto e far fronte a queste nuove sfide è stata formalizzata con la Legge 219/2017, intitolata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Questa legge rappresenta un punto di svolta nella tutela del diritto all’autodeterminazione del paziente, stabilendo regole chiare sulla comunicazione delle informazioni sanitarie e sul consenso informato.

La comunicazione come strumento di cura

L’articolo 1 della legge sancisce che ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di ricevere informazioni complete, aggiornate e comprensibili, adattate alle sue capacità di comprensione e al suo stato emotivo. Questo principio garantisce una relazione medico-paziente basata sulla trasparenza e sul rispetto reciproco: il paziente deve essere coinvolto sin da subito nelle decisioni eticamente rilevanti che riguardano la sua salute.

Presupposto essenziale per questo coinvolgimento è una comunicazione chiara e trasparente della diagnosi. Innanzitutto, il paziente ha il diritto, ma non il dovere, di essere informato sulla diagnosi. Anche se è raro che un paziente scelga di non essere informato sulla propria malattia, è fondamentale rispettare questa scelta qualora avvenga. Allo stesso tempo, è essenziale evitare di nascondere la verità con l’intento di “proteggerlo” dalla sofferenza o su richiesta dei familiari. Né il medico né la famiglia hanno il diritto di sostituirsi alla volontà del paziente nel decidere quanto sapere sulla propria malattia. La comunicazione della diagnosi deve essere chiara, completa e accessibile. Occorre considerare non solo il contenuto delle informazioni, ma anche come queste vengono recepite dal paziente, evitando i tecnicismi tipici del linguaggio medico. È necessario fornire dettagli sulla natura della malattia, sul suo decorso e sulle opzioni terapeutiche disponibili, senza trascurare gli aspetti psicologici ed emotivi della comunicazione. La medicina, infatti, non è solo una disciplina tecnico-scientifica: la cura è anche umanistica, perché si rivolge a un essere umano e non a un corpo “da aggiustare”. Comunicare una prognosi infausta rappresenta una delle sfide più complesse.

Nella nostra società occidentale, la morte e il fine vita sono spesso considerati tabù, e si tende a evitare di affrontarli apertamente. Tuttavia, parlare della malattia e della sua evoluzione non significa togliere speranza, ma offrire l’opportunità di una speranza autentica: quella che nasce dalla consapevolezza e che permette al paziente di pianificare il proprio futuro. Per questo motivo, è fondamentale che i medici e gli operatori sanitari ricevano una formazione adeguata sulla comunicazione, che richiede competenze specifiche e non può essere data per scontata. La legge riconosce che il tempo dedicato alla comunicazione è parte integrante della cura stessa.

Consenso informato: uno strumento per l’autodeterminazione

Il processo decisionale condiviso rappresenta un pilastro fondamentale della medicina moderna, integrando le evidenze scientifiche e l’esperienza clinica del medico con i valori, le preferenze, i bisogni e gli obiettivi di vita e di cura del paziente. Questo dialogo è reso possibile dal consenso informato, che non deve essere ridotto a una mera firma su un modulo.

Il consenso informato è quel processo di comunicazione che si instaura tra medico e paziente in cui il paziente deve decidere se acconsentire o meno a qualsiasi trattamento che il medico gli propone. Da punto di vista teorico, il fatto che il rapporto tra medico e paziente sia regolato dal consenso informato ha delle implicazioni bioetiche fondamentali.

In particolare, la legge sancisce il diritto all’autodeterminazione del paziente in ambito terapeutico, consentendo il rifiuto dei trattamenti. Rifiutare un trattamento dev’essere un atto volontario di una persona capace di intendere e di volere, e può declinarsi in due modalità:

  • Rifiuto di iniziare un trattamento (withholding)
  • Interruzione di un trattamento già in corso (withdrawing)

In entrambi i casi, il paziente non è tenuto a fornire giustificazioni per la sua scelta. La legge impone al medico di rispettare queste decisioni, considerate equivalenti sul piano etico e legale, e non prevede l’obiezione di coscienza, garantendo così che il diritto all’autodeterminazione sia pienamente tutelato.

La sfida delle malattie neurodegenerative e la pianificazione condivisa delle cure

Le malattie progressive e a prognosi infausta, come quelle neurodegenerative, evidenziano l’importanza di affrontare le scelte terapeutiche in una fase precoce della malattia. Un esempio emblematico è la malattia di Alzheimer, una forma di demenza che colpisce la memoria, il linguaggio e la capacità di prendere decisioni. Nelle fasi iniziali, la persona può ancora esprimere le proprie volontà, ma con il progredire della malattia diventa sempre più difficile comprendere e comunicare le proprie scelte. Per questo, è fondamentale discutere in anticipo con i propri cari e l’equipe curante quali trattamenti si desidera ricevere e quali no, finché si è ancora in grado di decidere autonomamente.

Per rispondere a queste esigenze, la Legge 219/2017 introduce la Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC), prevista dall’articolo 5. Si tratta di un processo dinamico, basato su un dialogo continuo tra il paziente, i suoi familiari e il team sanitario. Questo strumento è particolarmente utile in tutte quelle patologie progressive in cui le condizioni cliniche evolvono gradualmente e richiedono adattamenti costanti nelle decisioni terapeutiche.
Attraverso la PCC, è possibile prendere decisioni importanti, come ad esempio:

  • Rimodulazione dei trattamenti e delle indagini diagnostiche.
  • Accettazione o rifiuto di trattamenti salvavita.
  • Scelta del luogo di cura nelle fasi finali della malattia.
  • Sedazione palliativa per sofferenze refrattarie, ossia sintomi gravi che non rispondono alle terapie tradizionali.
  • Donazione di organi.
  • Disposizioni sulle ritualità funerarie.

Queste decisioni sono complesse, incerte, cariche emotivamente e possono cambiare rapidamente con il variare delle condizioni cliniche. Per questo, la PCC richiede tempo, un approccio graduale e può sempre essere rivista e modificata. Essa racchiude diversi passaggi:

  1. Discutere ed esplorare i propri valori personali
  2. Tradurli in decisioni anticipate sui trattamenti prevedibili
  3. Nominare un fiduciario, che si impegna a rappresentare le volontà del paziente quando egli non sarà più in grado di esprimerle, per proteggere e promuovere la sua autonomia.

PCC vs Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)

Anche se spesso vengono confuse o sovrapposte, la pianificazione condivisa delle cure e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) hanno funzioni distinte. Le DAT sono strumenti vincolanti con cui una persona (anche sana) può indicare in anticipo i trattamenti che accetterebbe o rifiuterebbe in una condizione di malattia ipotetica. Ad esempio, una persona sana può oggi recarsi in Comune e depositare una DAT in cui dichiara che, nel caso in cui un incidente stradale la lasciasse in stato vegetativo persistente per più di un anno, vorrebbe la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale. La PCC, invece, si applica a persone già affette da una malattia diagnosticata e consente di adattare le scelte terapeutiche alla loro situazione clinica concreta.

Nonostante i numerosi benefici sulla relazione di cura e sulla qualità delle cure, la PCC è ancora poco utilizzata nella pratica clinica, sia per una conoscenza limitata dello strumento, sia per la difficoltà nel riconoscere il momento opportuno per avviarla. Infatti, sebbene possa essere richiesta in qualsiasi momento dal paziente, è fondamentale che sia il medico a informarlo sulla possibilità di attivarla e, quando appropriato, a proporne l’integrazione nel percorso di cura. Inoltre, esiste la convinzione errata che essa riguardi solo le fasi terminali della malattia.

Divieto di accanimento clinico e importanza delle cure palliative

La Legge 219/2017, oltre a promuovere il consenso informato e la pianificazione condivisa delle cure, sancisce un principio etico e giuridico fondamentale: il divieto di accanimento clinico. Questo principio, previsto dall’articolo 2, stabilisce che nei casi di prognosi infausta a breve termine o di imminenza della morte, il medico deve evitare trattamenti che risultino inutili, sproporzionati o irragionevoli rispetto alle condizioni cliniche del paziente. L’obiettivo è evitare interventi che non apportano benefici significativi al paziente e che possono causare sofferenze inutili, rispettando la dignità della persona fino alla fine della vita.

L’accanimento clinico rappresenta una violazione dei principi fondamentali dell’etica medica, poiché contrasta con il dovere del medico di agire nel miglior interesse del paziente. La legge chiarisce che non è consentito prolungare artificialmente la vita attraverso trattamenti invasivi e non terapeutici, soprattutto quando il paziente ha espresso il desiderio di non essere sottoposto a tali interventi. Questo divieto non solo protegge il diritto del paziente a rifiutare cure sproporzionate, ma esonera anche il medico da responsabilità civili o penali nel rispettare tali decisioni.

Le cure palliative pongono al centro la qualità della vita del paziente, offrendo un supporto globale che va oltre l’aspetto clinico. Definite dalla Legge 38/2010 come un insieme di interventi terapeutici e assistenziali rivolti sia al malato sia alla sua famiglia, le cure palliative si applicano quando la malattia non risponde più ai trattamenti specifici. L’obiettivo non è guarire, ma alleviare il dolore e i sintomi, offrendo supporto psicologico, sociale e spirituale per accompagnare il paziente e i suoi cari in questo difficile percorso.

Le finalità delle cure palliative si basano su valori etici fondamentali, tra i quali la promozione del rispetto per il valore intrinseco di ogni persona come individuo autonomo e unico, la tutela dell’autodeterminazione della persona e il garantire attenzione e sensibilità ai valori e alle diversità culturali, religiose e morali.

Le cure palliative incarnano un approccio umanistico alla medicina, riconoscendo che anche quando non è possibile guarire, si può sempre prendersi cura. Offrire sollievo dal dolore fisico ed emotivo significa restituire dignità al paziente e permettergli di affrontare l’ultima fase della vita con serenità. Inoltre, queste cure rappresentano un diritto sancito dalla legge e devono essere garantite gratuitamente a tutti i cittadini.

Il divieto di accanimento clinico e la promozione delle cure palliative sono due facce della stessa medaglia: entrambe mirano a tutelare la dignità umana e a rispettare il diritto all’autodeterminazione. Tuttavia, per realizzare pienamente questi principi, è necessario superare le disuguaglianze nell’accesso alle cure palliative sul territorio nazionale e investire nella formazione degli operatori sanitari. Solo investendo in questi aspetti sarà possibile assicurare a ogni cittadino un fine vita dignitoso, consapevole e libero da sofferenze evitabili.

Articoli Correlati


Iscriviti alla Newsletter

* Richiesti
Scegli la newsletter
Consenso all’utilizzo dei dati

Aging Project userà le informazioni che fornisci al solo scopo di inviarti la newsletter richiesta.

Puoi annullare l'iscrizione in qualsiasi momento cliccando sul link che trovi nel footer dell'email. Per informazioni sulla Privacy Policy clicca qui.

Cliccando su "Acconsenti", accetti anche che le tue informazioni saiano trasferite a Mailchimp per l'elaborazione. Ulteriori informazioni sulle privacy di Mailchimp qui