La fibrillazione atriale (FA) è un disturbo del ritmo cardiaco diffusa, soprattutto negli anziani. Una delle complicanze più gravi è l’ictus ischemico, motivo per cui l’impiego del trattamento anticoagulante orale andrebbe sempre considerato, senza pregiudizi. Giuseppe Patti, Professore di Cardiologia presso l’Università del Piemonte Orientale, Direttore della Struttura di Cardiologia dell’Ospedale di Novara inquadra la patologia e i suggerimenti per un corretto trattamento in particolare in età avanzata

Di Marvi Tonus

La fibrillazione atriale è una patologia legata all’invecchiamento? Quali sono i fattori di rischio?

Sì, c’è una correlazione diretta tra probabilità di sviluppare fibrillazione atriale ed età. Per dare un ordine di grandezza, la prevalenza di questo disturbo cardiaco nella popolazione generale è dello 0,5-1%, mentre, nel sottogruppo di pazienti sopra i 75 anni, è superiore al 10%.
I principali fattori di rischio sono l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, la cardiopatia ischemica e l’insufficienza renale, a volte co-presenti. Altre condizioni favorenti sono un’alterazione della concentrazione di elettroliti nel sangue motivata da disidratazione, condizione tipica negli anziani che bevono poco, l’abitudine al fumo, perché la nicotina stimola il sistema nervoso simpatico accelerando il ritmo cardiaco e l’obesità. Ricordo che negli Stati Uniti la terapia della fibrillazione atriale si associa a programmi obbligatori di perdita di peso corporeo. Anche le patologie delle valvole cardiache e le malattie del muscolo cardiaco si associano a una maggiore incidenza di fibrillazione atriale. Con l’aumento dell’età media della popolazione e della prevalenza dei fattori di rischio, assisteremo nel tempo sicuramente a una diffusione sempre più ampia di questo disturbo del ritmo cardiaco.

A quali sintomi bisogna porre attenzione e quali sono i controlli da fare?

Non è semplice diagnosticare la fibrillazione atriale perché i sintomi possono essere lievi e non specifici. I più comuni sono la sensazione di battito cardiaco irregolare e accelerato, le palpitazioni, ovvero la percezione intensa delle pulsazioni cardiache, l’affanno, soprattutto quando il ritmo è veloce, la debolezza durante e dopo uno sforzo e a volte la sensazione di mancamento. Se il paziente è già cardiopatico, la fibrillazione atriale può dare sintomi simili all’angina, come dolore al petto e fiato corto. Attenzione però, in un’elevata percentuale di casi gli episodi aritmici sono completamente asintomatici, soprattutto se auto-limitanti, cioè di breve durata e con una risoluzione spontanea, pur se ricorrenti e frequenti. In queste circostanze la diagnosi è occasionale, quindi può non arrivare in tempo utile per un trattamento prima del sopraggiungere di complicanze. Da qui il suggerimento, soprattutto ai soggetti ultrasessantacinquenni, di sottoporsi a una visita cardiologica un paio di volte l’anno e di eseguire un elettrocardiogramma, esame poco invasivo, ma utile per portare alla luce proprio gli episodi asintomatici. Alle persone con diabete, ipertensione o cardiopatie è raccomandata anche l’autopalpazione delle arterie radiali del polso, per un controllo autonomo del ritmo cardiaco.

Sono disponibili sensori e dispositivi indossabili (wearable), per monitorare la salute attraverso gli smartwatch e gli smartphone. Sono affidabili per controllare la fibrillazione atriale?

Alcune applicazioni collegate ai dispositivi degli smartphone sono adesso in grado di rilevare se il ritmo è irregolare e avvertire di una possibile fibrillazione atriale. Rappresentano sicuramente il futuro della diagnostica domiciliare e il loro utilizzo e utile nei soggetti con multipli fattori di rischio per questa aritmia. Nei pazienti a basso rischio di sviluppare fibrillazione atriale si corre invece il rischio di avere dei falsi positivi, cioè di etichettare come fibrillazione atriale episodi che non lo sono. Qualsiasi diagnosi ottenuta con i dispositivi smart va comunque sempre verificata dal medico.

La fibrillazione atriale va trattata anche in assenza di sintomi?   

Certamente sì poiché c’è una relazione diretta tra fibrillazione atriale e ictus ischemico, anche nei casi di aritmia asintomatica. La minaccia è particolarmente grave per le persone più anziane. Per spiegare meglio il rapporto fra patologia e complicanza, si deve partire dall’osservazione che la contrazione non coordinata degli atrii del cuore, effetto della fibrillazione atriale, provoca un rallentamento del flusso di sangue tale da favorire la formazione di trombi all’interno delle cavità cardiache superiori, in particolare l’auricola sinistra. Se il trombo si stacca dalle pareti cardiache e va nel sistema vascolare periferico del cervello, può occludere un vaso e privare di ossigeno aree cerebrali più o meno vaste. Gli esiti dell’ictus ischemico vanno dalla disabilità fino al decesso del paziente.

Per riassumere, la fibrillazione atriale aumenta fino a cinque volte il rischio di ictus ischemico negli ultra-ottantenni e va sempre trattata, anche nei soggetti asintomatici, che mostrano un profilo di rischio di complicanze non dissimile dai sintomatici.

Qual è la terapia più appropriata per la fibrillazione atriale?

La terapia anticoagulante orale è il trattamento indicato per la prevenzione degli ictus nei soggetti con fibrillazione atriale. Negli anziani particolarmente fragili, soprattutto in presenza di altre patologie, la situazione si complica, perché l’equilibrio tra prevenzione dei trombi e rischio di sanguinamento legato alla terapia anticoagulante è molto delicato. Qualsiasi farmaco antitrombotico (sia anticoagulante sia antiaggregante, per es. l’acido acetilsalicilico) fluidifica il sangue, ma allo stesso tempo aumenta il rischio di emorragia, soprattutto a livello gastrointestinale. Per questo motivo si è valutato il cosiddetto beneficio clinico netto del trattamento anticoagulante orale in pazienti con fibrillazione atriale, con una notevole mole di studi pubblicati, incluso il nostro. Dalle prove raccolte risulta che, per qualsiasi età, ma soprattutto nei pazienti molto anziani, il rischio di ictus in assenza di terapia anticoagulante orale è di gran lunga superiore rispetto al rischio di sanguinamento legato alla stessa terapia. È un concetto difficile da far penetrare nella pratica clinica, perché a volte prevale un atteggiamento di ingiustificata prudenza da parte del medico. Tuttavia, i dati sono chiari: la terapia anticoagulante orale deve essere prescritta in tutti i soggetti con fibrillazione atriale, anche se anziani o molto anziani.

Cosa succede nel mondo reale?

Un terzo dei pazienti anziani con fibrillazione atriale non viene trattato farmacologicamente in maniera appropriata, perché prevale la paura del rischio emorragico. Lo dimostra il fatto che in alternativa ai farmaci anti-vitamina K, come il warfarin, c’è chi impropriamente prescrive l’acido acetilsalicilico, benché sia stato dimostrato che questa molecola ad azione antiaggregante riduce il rischio di ictus in misura molto ridotta, esponendo però il paziente agli stessi rischi di sanguinamento dell’anticoagulante. La terapia con warfarin invece funziona bene ed è utilizzata da oltre 70 anni, pur con tutti i suoi limiti.

Quali sono i limiti della terapia con warfarin?

L’assunzione di warfarin comporta un rischio di sanguinamento cerebrale e di complicanze emorragiche post traumatiche, ulteriormente aggravato dal basso peso corporeo, dall’insufficienza renale e dal rischio di cadute, che sono ovviamente più frequenti negli anziani, soprattutto se fragili. Inoltre, l’effetto anticoagulante del warfarin entra a regime con lentezza, e allo stesso tempo sono necessari da uno a tre giorni per ripristinare la normale funzione coagulativa dopo la sua sospensione, caratteristica che può influire negativamente sul rischio di emorragie in caso di necessità, per esempio, di interventi odontoiatrici o chirurgici in generale. La terapia va monitorata con controlli periodici dei parametri ematici di tipo coagulativo, il cosiddetto INR, in base al quale il medico prescrive la dose da assumere fino all’esame del sangue successivo. L’obiettivo è mantenere un valore di INR tra 2 e 3, la cosiddetta finestra terapeutica, che identifica un buon controllo. Nei pazienti anziani sono però più frequenti le fluttuazioni dell’INR, con la necessità di ricalibrare frequentemente i dosaggi. Infine, in corso di trattamento con warfarin c’è un elenco di cibi da evitare, in particolare quelli ricchi di vitamina K, come le verdure a foglia larga, ed assume un ruolo importante il problema dell’interazione farmacologica, particolarmente negli anziani in politerapia. Soprattutto nelle persone di età avanzata, con disabilità o con deficit cognitivi, c’è un rischio reale di una bassa aderenza terapeutica, cioè di instaurare una terapia eseguita in maniera scorretta e non continuativa.

Sono stati fatti passi avanti nella terapia della fibrillazione atriale?

Sì, da un decennio sono disponibili gli anticoagulanti ad azione diretta – definiti NAO – che compensano i limiti del warfarin. Questi farmaci hanno minori interazioni farmacologiche, non hanno interazioni con il cibo, vengono prescritti a dosaggi fissi, non necessitano di un monitoraggio periodico della funzione coagulativa e dell’aggiustamento del dosaggio. Sono già efficaci nel giro di poche ore e quando vengono sospesi si ha un rapido ripristino della funzione coagulativa. Rispetto al warfarin offrono un’analoga protezione dall’ictus correlato alla fibrillazione atriale, ma riducono del 50% l’incidenza delle complicanze emorragiche più gravi, per esempio le emorragie cerebrali, con un beneficio clinico netto tanto maggiore quanto più il paziente è anziano. I NAO sono però controindicati nelle persone con valvole cardiache meccaniche, con stenosi mitralica o in insufficienza renale terminale, in cui i dati sulla sicurezza non sono conclusivi.

Cosa possiamo concludere?

Nonostante la disponibilità di farmaci sicuri ed efficaci per prevenire l’ictus, spesso i pazienti con fibrillazione atriale non vengono trattati al meglio. Al contrario, per eccesso di prudenza, a volte si tende a prescrivere l’acido acetilsalicilico, tanto più negli anziani, ma è una scelta inappropriata alla luce delle attuali evidenze. Per questo motivo è importante investire nella diffusione delle prove scientifiche disponibili, affinché tutti i pazienti ricevano il miglior trattamento possibile, attualmente rappresentato dai NAO.

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