“È l’età, cosa ti aspetti?”

Le avvisaglie della demenza sono spesso così subdole, graduali e insidiose da indurre molti a sottovalutarle, quasi a scherzarci sopra. La comune associazione tra perdita di memoria ed età avanzata è in realtà rischiosa: l’età è infatti un importante fattore confondente, che porta a minimizzare sintomi che sono invece spie iniziali di un decorso patologico. In altri casi, invece, si dà la colpa a episodi particolari che hanno rappresentato una svolta nella vita della persona, come il pensionamento, l’uscita di casa di un figlio o un problema familiare.

I membri della famiglia sono solitamente i primi ad accorgersi che qualcosa non va, a volte ancora prima del malato stesso, che o non ne è ancora inconsapevole, o finge che vada tutto bene, tentando di nascondere il problema con piccoli accorgimenti. 

Mi sono resa conto che non era più la casa come la teneva lei (…) Mentre giù teneva tutto in ordine, perché ci voleva dare l’impressione che fosse tutto normale

(figlia di una paziente con demenza)

Insomma c’erano delle cose strane e poi aveva delle dimenticanze (…) apriva le parentesi e queste parentesi era un continuo aprirle ma non richiuderle mai

(figlia di un paziente con demenza)

Le manifestazioni della demenza sono molteplici, variabili e molto soggettive e dipendono anche dal tipo di patologia neurodegenerativa alla base.

La progressiva perdita di memoria tipica della demenza di Alzheimer, pur essendo la forma più frequente (fino al 70% dei casi), non è l’unica. Nella demenza vascolare, per esempio, i sintomi tendono a fluttuare, almeno nelle fasi iniziali, alternando momenti di totale lucidità ad altri in cui la persona sembra assente, che riflettono le variazioni del flusso sanguigno a livello cerebrale. Un cambiamento dell’umore e del comportamento è invece più tipico delle demenze frontotemporali, dato che il processo di neurodegenerazione interessa soprattutto le aree coinvolte nelle emozioni più complesse, nella capacità di prendere decisioni e pianificare, nel comportamento, tanto è vero che si può verificare un vero e proprio cambiamento della personalità.

La disinibizione è uno dei sintomi cardine della demenza frontotemporale e include impulsività, irritabilità, mancanza di tatto, persino allucinazioni e manie di persecuzione, tutti comportamenti che mettono a dura prova familiari e amici, oltre a rappresentare un potenziale pericolo per la persona stessa, che diventa meno prudente e che necessita di una supervisione costante. Un aspetto interessante riferito da molti familiari è l’incapacità di comprendere il cambiamento del proprio caro, soprattutto se questo coinvolge la sfera comportamentale, a volte interpretato come un affronto a loro stessi e non come manifestazione di una malattia che sta per emergere, tanto da provare risentimento nei loro confronti.

(…) Noi abbiamo avuto una figlia dopo tanti anni di matrimonio e lui era molto attaccato a questa ragazzina e da lì notai qualcosa perché non chiedeva più dov’era, non chiedeva più cosa aveva fatto a scuola, come se non avesse più una figlia (…) era tutta un’altra persona”

(moglie di un paziente con demenza)

Tutto cambia

Dopo questa iniziale aura di incertezza, spesso è un evento eclatante a sconvolgere il precario equilibrio e a imporre la necessità di rivolgersi a un professionista. A molti sembrerà un paradosso, ma molto spesso dare finalmente un nome a ciò che sta succedendo a se stessi o al proprio familiare rappresenta quasi una liberazione. L’incertezza in cui si è vissuti fino al momento della diagnosi crea un senso di frustrazione tale che leggere nero su bianco il nome della patologia fa sentire in un certo senso sollevati. 

Questo non significa che il referto medico non sia un duro colpo. La diagnosi rappresenta un punto di svolta a partire dal quale la famiglia inizia a riorganizzarsi per convivere con la patologia, che adesso ha un nome. Almeno all’inizio, viene privilegiata l’assistenza del malato a casa, riservando un eventuale ricovero in residenze sanitarie alle fasi più gravi della malattia. La reazione è molto soggettiva e non sempre questa “nuova realtà” viene accettata. La diagnosi e il senso di impotenza verso una malattia per la quale non esiste ancora una cura può gettare nello sconforto, dando inizio a un processo doloroso di adattamento progressivo, oppure portando alla rassegnazione: ci si adegua alla nuova situazione senza però accettarla, con un pizzico di nostalgia per la vita precedente. 

E poi piano piano ti rassegni (…) l’accettazione mai, ma la rassegnazione sì (…) un tumore è brutto, chiamalo come ti pare, ma alla fine speri che venga fuori qualcosa

(moglie di un paziente con demenza)

È proprio in questo momento che entra in gioco un’altra figura protagonista della convivenza con la demenza, oltre al malato stesso: chi si occupa di lui, spesso definito caregiver, termine anglosassone che riassume bene il ruolo di colui che presta la propria cura. Di solito i primi caregiver sono i familiari stessi, rappresentati dal coniuge e/o dai figli in età adulta. In entrambi i casi ci possono essere vantaggi e svantaggi. 

Per esempio, un aspetto che interessa maggiormente i figli di persone con forme precoci di demenza è la difficoltà nel conciliare la cura del proprio caro con i numerosi obblighi che l’età ancora giovane comporta, come la gestione dell’attività lavorativa o di una famiglia con bambini piccoli. In più, a volte la malattia del genitore toglie alla famiglia un importante aiuto come quello della cura dei nipotini. 

Nei casi in cui il caregiver è il coniuge anziano, se da una parte il tempo a disposizione è maggiore, dall’altra gli acciacchi dell’età non sono d’aiuto e spesso sovraccaricano il coniuge, ostacolando la sua capacità di prendersi cura del marito o della moglie come vorrebbe.

 

La difficile convivenza

La diagnosi di demenza in un membro della famiglia sconvolge drasticamente la vita di tutti i giorni. Questa patologia comporta infatti un ridimensionamento del tempo, costringe a vivere in un costante presente, arrivando a cancellare l’identità passata e precludendo progetti futuri. Si vive alla giornata e si rivoluziona la propria routine quotidiana, che ruota costantemente intorno al malato e costringe a rimanere reclusi in casa per lungo tempo, con poche possibilità di ritagliarsi un  momento per sé. Spesso, fra l’altro, il familiare si sente in dovere di prestare il proprio sostegno, vivendo un conflitto interiore tra i propri desideri e il senso di responsabilità

Tutto questo ha un importante risvolto psicologico: ansia, frustrazione e scarsa accettazione della nuova situazione possono rovinare il rapporto con il malato stesso. Non è un caso che il caregiver di un malato di demenza abbia un rischio di episodi depressivi tre volte superiore, soprattutto le donne, che più spesso degli uomini si fanno carico della responsabilità di cura.

La demenza può complicare anche semplici attività quotidiane come mangiare o lavarsi. La convivenza con chi è affetto da questa patologia è un percorso in continua evoluzione, fatto di tentativi, sbagli e passi indietro, dove una delle parole chiave è “calibrare” le proprie reazioni alle esigenze della persona, come questo simpatico cortometraggio aiuta a comprendere. Per quanto assurde possano sembrare le richieste e l’atteggiamento del malato, assumere un comportamento ostile nei suoi confronti può far degenerare la situazione, scatenando reazioni di rabbia o ansia. Occorre invece assecondare e, se possibile, distrarre la persona, coinvolgendola in attività piacevoli, come ascoltare della buona musica o proporle piccole mansioni che ha sempre svolto con piacere: cucinare, fare giardinaggio, dare una mano nei mestieri di casa più semplici. Permettere al malato di sentirsi utile fa riguadagnare la fiducia in se stessi e aiuta a dimenticare per un momento il senso di umiliazione legato alla propria condizione di dipendenza.

(…) io dico che forse non siamo preparati, secondo me ci vuole anche una preparazione per poter stare accanto a queste persone

(figlia un paziente con demenza)

Ho capito da sola come fare, sbagliando magari

(moglie di un paziente con demenza)

Il gioco delle parti

Ancor più delle difficoltà logistiche di riorganizzazione della famiglia, è l’impatto emotivo ad essere destabilizzante. Le diverse forme di demenza comportano prima o poi un cambiamento dell’identità del malato, che finisce per influenzare inevitabilmente le relazioni con i familiari. Questo cambiamento d’identità si traduce in un vero e proprio cambiamento nei ruoli, che può provocare quasi un senso di perdita. Ciò che più disorienta quando il decorso della malattia si fa incalzante è la contraddizione tra un’identità che si trasforma e un corpo che paradossalmente non subisce grandi cambiamenti, a parte quelli normalmente dovuti all’età. Una metafora spesso usata dai caregiver è quella di un guscio vuoto: il corpo rimane, ma l’anima non è più la stessa e questa presenza-assenza accentua la difficoltà di accettazione e costringe i caregiver a ridimensionare il proprio ruolo di figlio o di coniuge. 

Ora sono diventata io la mamma della mia mamma (…) ho dovuto lavorare tanto su me stessa (…) su questa cosa qui, che è una cosa tremenda

(figlia di una paziente con demenza)

È stato doloroso per me, quando non mi ha chiamata più per nome, quando (…) non sapeva più chi ero

(figlia di un paziente con demenza)

Forse questo cambiamento è ancora più duro da accettare per un coniuge. Mentre infatti per i figli si verifica uno scambio di ruoli che in fondo si mette in conto quando un genitore diventa anziano, il coniuge vive la profonda trasformazione di un rapporto tra pari, dove uno diventa completamente alle dipendenze dell’altro, che d’altra parte non può più fare affidamento sul malato, con tutte le conseguenze emotive ma anche pratiche di questa nuova condizione: basti pensare alla gestione della casa o delle finanze della famiglia, che magari prima era affidata al coniuge che poi si è ammalato e diventa quindi a carico del caregiver, che può trovarsi spiazzato.

(…) il marito è qualcosa di diverso (…) con il marito perdi tutto, il compagno in tutti i sensi (…) con il genitore sembra quasi più normale, è un genitore, è anziano

(moglie di un paziente con demenza)

La coppia non c’è più, è una vedovanza

(moglie di un paziente con demenza)

(…) Noi si diventa come una mamma per loro

(moglie un paziente con demenza)

 

Una questione di etichetta: la rappresentazione della malattia

Tra gli studi che si sono occupati della qualità di vita nei soggetti con demenza e dei loro caregiver, alcuni hanno esplorato i diversi modi di percepire la malattia. Si entra qui nel campo della psicologia del senso comune, un modello che descrive il processo che porta a dare un senso alla condizione che si sta vivendo a partire da una rappresentazione molto personale, uno schema mentale che mette insieme vari elementi e che può modificarsi nel tempo. Questo esercizio psicologico si compone di cinque momenti: inizia con la definizione della malattia, attribuendole un’etichetta, e continua con il ragionamento sulle sue cause, sul suo decorso, sulle possibilità e strategie per controllarla e sulle conseguenze a lungo termine. 

Un gruppo di ricercatori inglesi ha intervistato 50 caregiver di soggetti con demenza di Alzheimer o vascolare, chiedendo loro come chiamavano la malattia dell’assistito. La maggior parte ha risposto usando termini medici, appresi al momento della diagnosi da parte di uno specialista. Alcuni però hanno confessato di riferirsi alla patologia in termini diversi, più generici, in presenza del malato, preferendo definirla come “problemi di memoria” anziché “morbo di Alzheimer” o “demenza”, mostrando un atteggiamento protettivo nei suoi confronti. Una definizione troppo tecnica può apparire infatti meno accettabile, può essere una fonte di stress e soprattutto bersaglio di uno stigma sociale che purtroppo persiste ancora oggi.

Ma perché è importante rappresentare la malattia? Se un paziente percepisce che chi gli sta intorno evita di parlare della patologia, quasi provandone vergogna, è portato a pensare che la demenza sia un tabù, un’entità da non nominare ma che in realtà è entrata nella vita personale dell’intera famiglia e con cui prima o poi bisognerà fare i conti. Sapere che idea il paziente si è fatto della sua malattia consente invece di mettersi nei panni del malato esplorando la sua condizione da una diversa prospettiva. Soprattutto nella relazione medico-paziente, ma anche in quella malato-caregiver, questo approccio migliora notevolmente la comunicazione e il rapporto a lungo termine, creando un’alleanza terapeutica a tre (medico-malato-caregiver).

Un possibile sostegno in questo senso può essere fornito dalla “narrazione guidata” o storytelling, definita come un modello per scoprire, attraverso l’analisi condivisa del linguaggio orale e scritto, nuove soluzioni quando, durante una situazione di disagio, le altre strategie sono risultate inefficaci. In pratica, guidati da un moderatore (facilitatore), che propone al gruppo di partecipanti degli argomenti da affrontare di volta in volta (ecco perché “guidata”) ognuno sceglie ciò che più gli preme raccontare e, esprimendolo, lo rende più autentico. Raccontando una storia, la propria storia, si tenta di “mettere ordine” e di dare un senso alla propria esperienza. Per il caregiver, esternare il proprio vissuto può rappresentare una valvola di sfogo per la frustrazione accumulata da quando la malattia del familiare ha iniziato a manifestarsi, oltre che un’ottima occasione per intrecciare nuove relazioni in una situazione dove il rischio di chiudersi in se stessi è sempre dietro l’angolo.

 

Fonti

 

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