Rispetto agli uomini, le donne sono più longeve, ma vivono peggio. Perché? Si tratta anche di una questione di genere, dal momento che sono state sempre curate con le stesse terapie sperimentate solo su individui di sesso maschile. Ma le cose stanno cambiando
Diciamoci la verità: viviamo in un mondo fatto su misura per gli uomini, e la medicina non fa eccezione. L’individuo di sesso maschile, fin dai tempi di Ippocrate, è sempre stato considerato il paradigma scientifico standard da cui partire, anche per curare le donne: è solo da pochi decenni, infatti, che nella comunità scientifica sta prendendo piede l’idea di una medicina più inclusiva e, per questo, più efficace: la medicina di genere. Attenzione, perché non si tratta di una medicina al femminile, che si concentra sulle patologie tipiche delle donne, tutt’altro. Scopriamo insieme di cosa si tratta.
Demografia dell’invecchiamento e genere: il “paradosso donna”
Ma facciamo un passo indietro e guardiamo qualche numero. A uno sguardo superficiale sui dati demografici di invecchiamento e mortalità della popolazione italiana sembrerebbe che le donne siano avvantaggiate. Secondo l’Istat, infatti, le donne in media vivono 6-8 anni più degli uomini, con una speranza di vita pari a 84,6 anni, rispetto ai 79,1 degli uomini. Ma questo significa un miglioramento delle condizioni di vita? Sembrerebbe di no. Sempre dai dati Istat, infatti, l’8,3% delle donne italiane denuncia un cattivo stato di salute contro il 5,3% degli uomini. Anche la disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini). Appare quindi evidente che le donne vivono più a lungo, ma peggio rispetto agli uomini: questa incongruenza è nota come “paradosso donna”. Alla base del paradosso donna sembrano esserci varie cause, non del tutto chiarite: si pensa che nella maggiore longevità intervengano fattori biologici intrinseci del sesso femminile (come la presenza di estrogeni in circolo, un sistema immunitario più efficace e forse un diverso smaltimento dei radicali liberi dell’ossigeno) e fattori socio-culturali, relativi all’ambiente circostante e agli stili di vita condotti.
Queste ragioni però sarebbero le stesse che determinano condizioni di vita peggiori nelle donne, oltre a una pratica medica che, fin da Ippocrate, ha sempre considerato l’uomo come paradigma scientifico di riferimento per tutti gli stati fisiologici e patologici, salvo quelli legati all’apparato riproduttore.
Da qualche decennio, però, ha iniziato a farsi strada l’idea che il corpo della donna, in medicina e nella ricerca clinica e biomedica, non è come quello dell’uomo: le donne quindi dovrebbero essere curate con un approccio che tenga conto dell’impatto che tutte le determinanti del genere (biologiche, ma anche sociali, economiche e culturali) hanno sulla fisiologia, sulla fisiopatologia e sulle caratteristiche cliniche delle malattie. In altre parole, la medicina deve avere un approccio di genere, non solo quando si tratta di patologie legate strettamente all’apparato riproduttore (come, per esempio, i tumori della mammella, utero od ovaie), ma per le malattie comuni ai due sessi, anche quelle ritenute più “maschili”, come quelle cardiovascolari, che impattano in modo diverso su uomo e donna in termini di incidenza, diagnosi, cura e prevenzione.
Cosa è la medicina di genere (e cosa è il genere)
Per medicina di genere, quindi, si intende un approccio interdisciplinare che si propone, attraverso la ricerca, di identificare e studiare le differenze tra uomo e donna, non solo nella frequenza e nel modo con cui si manifestano le malattie, ma anche nella risposta alle terapie. Per capire appieno, però, le ragioni e gli obiettivi della medicina di genere, vale la pena approfondire cos’è il genere, e cosa differenzia questo concetto da quello di sesso biologico.
Si parla di sesso biologico quando ci si riferisce a quelle caratteristiche biologiche (ovvero la presenza della coppia di cromosomi XX o XY) o fisiologiche (la presenza dell’apparato riproduttore, di ormoni sessuali specifici ecc.) che differenziano l’uomo dalla donna. Il concetto di genere, però, ha una valenza più ampia, perché raccoglie, insieme alle caratteristiche biologiche e fisiologiche, anche quelle sociali, culturali e psicologiche che determinano la differenza tra uomini e donne. Il genere, infatti, si riferisce a quella sfera sociale e culturale che detterà comportamenti e abitudini, ritenuti più consoni a uomini piuttosto che alle donne, che andranno a incidere sulle scelte dei pazienti e delle pazienti.
Non solo: nel 2009 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il genere come un determinante della salute, ovvero un fattore in grado di influire e modificare la condizione di salute delle persone: è per questo che l’esigenza di una medicina di genere diventa sempre più stringente. Una medicina che tenga in considerazione le differenze legate al genere come determinanti sull’impatto di fattori di rischio, sull’insorgenza, sul decorso e sulla prognosi delle malattie, nonché sugli effetti delle terapie, è di fatto una medicina basata sull’appropriatezza e sulla personalizzazione delle cure, quindi una medicina migliore, con risvolti positivi sulla qualità della vita delle persone e con meno costi che gravano al Sistema Sanitario Nazionale. Alla luce dei dati menzionati prima, poi, appare evidente che la medicina di genere si intrecci a doppio filo anche con l’invecchiamento. In Italia, infatti, le donne attualmente rappresentano il 58% della popolazione di ultra 65enni e il 70% degli ultra 85enni, e la popolazione geriatrica femminile è in aumento: in futuro, quindi, i medici, i geriatri e i professionisti coinvolti nella cura delle persone anziane dovranno sempre più promuovere un approccio di genere.
Medicina di genere: passato, presente e futuro
Nel 1991 la cardiologa americana Bernardine Healy, in un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine, denuncia una malattia, la cosiddetta sindrome di Yentl, che affligge l’Istituto di Cardiologia che dirige, e in generale la cardiologia. Yentl è il nome della protagonista di un racconto del premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer, che è costretta a travestirsi da uomo pur di accedere alla scuola ebraica e studiare il Talmud, uno dei testi sacri ebraici. Healy fa il paragone con la storia di Yentl per evidenziare la differente gestione, tra uomini e donne, della patologia coronarica. Questo portava, a parità di condizioni, a un numero ridotto di interventi diagnostici e terapeutici effettuati sulle donne e, quindi, un approccio clinico-terapeutico discriminatorio e insufficiente. Da questo momento in poi si inizia a parlare di medicina di genere.
Probabilmente non è un caso che la medicina di genere sia nata proprio per denunciare storture nell’ambito della cardiologia: le malattie cardiovascolari, infatti, sono tra le malattie che, in uomini e donne, differiscono di più per incidenza, decorso e sintomatologia. Inoltre, i sintomi che spesso nelle donne si accompagnano a eventi cardiovascolari importanti, cioè ansia, dispnea e affaticabilità, sono quelli che vengono solitamente classificati come sintomi atipici, il che porta a un ritardo nella diagnosi e nel trattamento. Riguardo alle malattie cardiovascolari, quindi, esiste ancora il pregiudizio che esse colpiscano di più gli uomini, mentre in realtà, superati i 65 anni, anche per le donne diventano la prima causa di mortalità. Ma non ci sono solo le malattie cardiovascolari; tra le malattie che presentano delle differenze in base al genere troviamo anche:
- Malattie neurodegenerative;
- Malattie autoimmuni;
- Malattie respiratorie;
- Malattie osteoartrosiche;
Inoltre sempre più studi indagano le differenze di genere alla base della farmacologia, e di come donne e uomini reagiscano diversamente ai farmaci e al loro metabolismo.
In conclusione, l’approccio della medicina di genere è un approccio multidisciplinare e innovativo, che, oltre alle differenze biologiche alla base della fisiologia e patofisiologia di uomini e donne, tiene conto anche dell’importanza del contesto socioeconomico e culturale sulla determinazione dello stato di salute. Tra gli obiettivi della medicina di genere, pertanto, c’è quello di indirizzare la ricerca clinica e biomedica verso approcci più inclusivi (ad esempio conducendo trial clinici su coorti di donne per testare l’efficacia e la sicurezza di nuovi farmaci), quello di individuare marcatori diagnostici il più possibili accurati a seconda del genere, quello di educare ad approcci di prevenzione differenti che meglio si adattino alle differenze socio-culturali. Lo scopo finale è una medicina più efficace, personalizzata, appropriata, che migliori le condizioni di vita di tutte le persone.
Bibliografia
Healy, B. (1991). The Yentl Syndrome. New England Journal of Medicine, 325(4), 274–276. doi:10.1056/nejm199107253250408
https://www.who.int/health-topics/gender
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2490_allegato.pdf
Carney, G. M. (2017). Toward a gender politics of aging. Journal of Women & Aging, 30(3), 242–258. doi:10.1080/08952841.2017.1301163
Medicina di genere. Una nuova sfida per la formazione del medico n.62, 2014, pp.2778-2782, DOI: 10.4487/medchir2014-62-1