Come accade spesso nei picchi influenzali, anche durante la pandemia sono più colpite le fasce disagiate della popolazione. Le disuguaglianze socio-economiche, lavoro, istruzione e reddito, influiscono direttamente sugli stili di vita che modellano la qualità della salute nell’invecchiamento.
Totò, Il Principe della risata, ha paragonato la morte a una livella, lo strumento del muratore, perché rende tutti uguali a dispetto delle differenze sociali. Ma sembra proprio che la cattiva salute, ed eventualmente la morte, non siano cieche di fronte a queste differenze.
Prendiamo la pandemia di COVID-19. Durante la prima ondata pandemica del 2020 la mortalità generale in Piemonte è aumentata per effetto del virus. Ma non è aumentata per tutti allo stesso modo. Il professor Paolo Vineis – epidemiologo dell’Imperial College di Londra – in occasione del webinar organizzato dall’Università del Piemonte Orientale “Ricerca ed aging ai tempi del coronavirus: esperienze a confronto” ha mostrato i dati ancora grezzi condivisi dal professor Giuseppe Costa docente di Igiene e Sanità Pubblica dell’Università di Torino. Da questi dati si osserva abbastanza chiaramente che i più colpiti (La linea spezzata gialla. Notate il picco alla fine del grafico?) sono stati gli anziani over 65 con un livello di istruzione elementare.
A ben vedere ce lo potevamo aspettare. Lo stesso grafico mostra dei picchi di mortalità precedenti – di entità minore rispetto a quello del 2020 – localizzati a gennaio 2017, 2018 e 2019 in corrispondenza delle consuete epidemie di influenza invernali. L’andamento è lo stesso: in tutti quei casi gli anziani con il livello di istruzione più basso hanno avuto la peggio rispetto al diffondersi dei virus.
Spostandoci nel Regno Unito questa tendenza non cambia, a riprova che non si tratta di una peculiarità nostrana. Nel già citato webinar, Vineis mostra dei rilevamenti dell’ISTAT di Sua Maestà che ritraggono una situazione di disparità nella mortalità per COVID-19 tra diversi tipi di professioni. I più toccati, ancora una volta, sono i lavoratori meno qualificati che svolgono mansioni manuali – quindi quelli con il livello di istruzione minore – che risentono della pandemia addirittura più delle professioni che richiedono il contatto con il pubblico. I più al sicuro sono i liberi professionisti e i manager.
Sono indicazioni come queste che danno l’idea del perché la pandemia non sia da studiare solamente tramite gli strumenti classici della virologia e dell’epidemiologia – imprescindibili – ma che la dimensione socioeconomica sia altrettanto importante per capire come prevenire le differenze di salute che vanno a colpire le fasce più svantaggiate della popolazione. Parafrasando un appello pubblico lanciato da Michelle Kelly-Irving, ricercatrice dell’INSERM – l’Istituto superiore di sanità francese – sembra che oggi come oggi vogliamo sentir parlare solo i virologi e non gli scienziati sociali.
Perché le persone più svantaggiate invecchiano male
Ma quali meccanismi portano le persone più svantaggiate ad avere una maggiore mortalità e, in genere, delle condizioni di salute peggiori e un invecchiamento di peggior qualità?
Sì, perché si sa da tempo che la correlazione non riguarda solo la risposta alle malattie infettive.
Tra le fonti di dati di maggior qualità al riguardo troviamo lo “Studio Whitehall”, nome d’arte di un gigantesco studio di coorte iniziato nel 1985 ancora una volta nel Regno Unito. Questo progetto, che terminerà nel 2030, segue da vicino l’evoluzione nel tempo della salute di circa 10.000 volontari, tutti dipendenti della Pubblica amministrazione, monitorando un gran numero di aspetti della loro vita incluse le dipendenze, gli stili di vita e la posizione lavorativa. L’obiettivo dichiarato è capire in che modo questi fattori sono correlati con il declino psicofisico, l’obesità, il diabete e le malattie cardiovascolari, tutte condizioni tipiche della terza età.
Dallo Studio Whitehall emerge una correlazione lineare tra livello gerarchico e qualità dell’invecchiamento. A fronte di una differenza sostanziale nell’incidenza di malattie cardiovascolari, i dipendenti di basso livello muoiono di infarto 2,5 volte più dei manager: il padre del progetto Michael Marmot individua la spiegazione nei meccanismi lavorativi che generano stress psicosociale. In particolare i sottoposti patirebbero la mancanza di riconoscimenti per il lavoro svolto e l’accoppiata tra frenesia lavorativa – molte cose da fare e poco tempo per farle tutte – e la mancanza di controllo sul proprio operato derivante dal dipendere dal proprio superiore.
E lo stress psicosociale è tirato in causa anche Vineis per spiegare – almeno in parte – le conseguenze della pandemia COVID-19 sulle fasce più svantaggiate. Oltre al fatto di svolgere perlopiù delle mansioni che non possono essere mutate in telelavoro (si sa che restare a casa protegge dai contagi), lo stress psicosociale dei sottoposti innalza in maniera cronica lo stato infiammatorio generale (“sovraccarico allostatico”) e accelera l’invecchiamento epigenetico.
Dai fattori socioeconomici dipendono gli stili di vita
E ora è il momento di parlare dell’elefante nella stanza, gli stili di vita.
Per farlo torniamo nello Stivale e diamo un’occhiata alle relazioni sullo stato sanitario del paese (RSSP), che hanno lo scopo di riportare al Parlamento e alla popolazione una fotografia periodica della salute degli italiani e dell’attuazione delle politiche sanitarie. Gli ultimi due fermo-immagine risalgono alla prima metà dello scorso decennio, rispettivamente al 2011 e al 2013, e ritraggono una situazione concorde con i risultati di Oltre Manica: l’italiano che vive di più e invecchia in salute a grandi linee è istruito, ha svolto una professione non manuale e vive nel nord Italia.
È la seconda di queste rilevazioni a legare le differenze socioeconomiche (e geografiche!) a delle cause più prossime. Tra gli uomini è stata ad esempio rilevata una prevalenza di fumatori tra i meno istruiti, come anche una maggior incidenza di stili di vita sedentari e di eccesso di peso tra i poco istruiti e chi abita nel meridione del paese.
Sulle disuguaglianze nord-sud l’RSSP 2013 recita:
È dunque possibile che la ben nota combinazione della particolare concentrazione di condizioni di povertà individuali nel Mezzogiorno, unitamente alla minore capacità di queste Regioni di moderare l’impatto negativo sulla salute di queste disuguaglianze, sia all’origine del divario tra Nord e Sud che si manifesta in questi indicatori di salute percepita; il suo allargamento nel tempo potrebbe rappresentare un esito sfavorevole della crisi economica che intercorre tra le due rilevazioni.
È possibile rilevare l’effetto sulla salute delle disuguaglianze socioeconomiche anche attraverso un gradiente geografico su scala locale. Vediamo nello specifico i dati del Piemonte. Nel 2010, come riportato da Costa in un rapporto del 2017, nella città di Torino i quartieri bene avevano una speranza di vita maggiore rispetto alle zone più popolari. Bastava spostarsi di qualche fermata del tram che dal Centro porta in periferia per vedere diminuire la speranza di vita al tasso di sei mesi ogni chilometro.
Una biobanca per investigare gli effetti delle disuguaglianze socioeconomiche sulla salute
L’interesse verso le differenze socioeconomiche, il loro influsso sugli stili di vita e, in definitiva, sull’invecchiamento in salute è più alto che mai. L’Università del Piemonte Orientale con il progetto Aging darà vita a una delle strutture più formidabili a disposizione della scienza moderna per supportare gli studi sull’invecchiamento, la Biobanca. Lo scopo è raccogliere, conservare e gestire materiale biologico liberamente offerti dalla cittadinanza e permetterne l’accesso ai ricercatori.
In accordo con le migliori pratiche di gestione dei dati personali fornite dai Comitati Etici, gli scienziati potranno così studiare più efficacemente il metabolismo umano. Il metaboloma e il proteoma sono gli insiemi di sostanze prodotte dal nostro organismo sotto la direzione del nostro genoma e variano in risposta a diversi stimoli, ponendosi così come un “mondo di mezzo” che collega il nostro genoma, immutabile nel corso della nostra vita, e le mutevoli condizioni esterne che affrontiamo. Capire come questo mondo, ricchissimo, varia durante gli anni e le condizioni di salute può aiutare a comprendere i meccanismi molecolari che stanno alla base dell’invecchiamento e della longevità.
La Biobanca sarà utilizzata anche per il Novara Cohort Study, una riedizione potenziata dello Studio Whitehall in suolo piemontese, che verrà animato dalla partecipazione, attiva e volontaria, specificamente della popolazione di Novara e dintorni con lo scopo di raccogliere campioni biologici, dati sugli stili di vita e sulle condizioni di lavoro per aumentare la comprensione del come e del perché si invecchia e, soprattutto, avere indicazioni sul come invecchiare in salute.