Per molti esperti il diabete di tipo 2 è la malattia del secolo, la più legata al modello di vita occidentale, caratterizzato da progressivo invecchiamento della popolazione, stress, sedentarietà e cattive abitudini alimentari. Colpisce più frequentemente la persona adulta o anziana, in prevalenza sovrappeso od obesa, e si manifesta con un aumento del livello di zucchero nel sangue dovuto a un’alterazione del metabolismo dell’insulina. Il diabete di tipo 2 talvolta rientra all’interno di una sindrome metabolica più complessa, che presenta anche altre condizioni cliniche come l’ipertensione arteriosa e valori elevati di grasso nel sangue.
Le cifre sono impressionanti: si stima che nel 2035 le diagnosi complessive di diabete nel mondo possano arrivare a 595 milioni di casi, e in Italia nei prossimi 20 anni potrebbero essere 5 milioni le persone affette da diabete. Numeri significativi, che aprono a una serie di considerazioni circa la sostenibilità dei costi da parte dei sistemi sanitari per la gestione della malattia e delle eventuali complicanze, e sulle misure da intraprendere per aumentare la conoscenza dei fattori di rischio e prevenirne l’insorgenza.
Ne abbiamo parlato con Paolo Marzullo, professore associato di Endocrinologia presso l’Università del Piemonte Orientale.
Professor Marzullo, come siamo messi oggi in Italia per quanto riguarda le diagnosi di diabete?
Siamo purtroppo in linea con gli altri paesi occidentali. Negli ultimi anni la prevalenza della malattia è più che raddoppiata. Le diagnosi di diabete sono circa 3 milioni e 600 mila, ma è probabile che il numero reale di persone con diabete sia un milione in più – il 25% delle persone sfugge ai controlli e non sa di averlo. Del totale, solo il 10% è colpito da diabete di tipo 1 (maggiormente associato a fattori ereditari, determina una risposta autoimmune anomala, e compare prevalentemente durante l’infanzia e l’adolescenza, ndr), mentre il 90% è affetto da diabete di tipo 2.
Se rivolgiamo la nostra attenzione a tutta la popolazione, possiamo individuare due macro fasce: nella prima rientrano persone già affette da diabete; nella seconda ci sono quelle a rischio di diabete – tra cui i bambini in età scolare sovrappeso od obesi (4 su 10), che potrebbero sviluppare un diabete di tipo 2 in età adulta, e le persone anziane, che con l’avanzare degli anni hanno visto cambiare il proprio corpo con un aumento del grasso corporeo e un indebolimento complessivo del muscolo, a sua volta spesso infiltrato di tessuto adiposo, condizione che favorisce la sedentarietà.
La persona anziana presenta poi altri fattori di rischio, di tipo sociale, che possono incidere sullo stile di vita e favorire l’insorgenza del diabete, come la solitudine, la trascuratezza, la perdita di un ruolo attivo e lo stigma che ne consegue. Per questo è fondamentale agire tempestivamente anche sulla popolazione anziana per invertire la rotta e promuovere un invecchiamento sano e attivo.
Cosa si può fare per prevenire la malattia?
Mi piace utilizzare una metafora: se l’individuazione dei casi occulti può essere vista come una fotografia istantanea, la messa in campo sistematica di comportamenti preventivi può essere interpretata come la realizzazione di un lungometraggio. I comportamenti preventivi, o correttivi, implicano una profonda modifica del proprio stile di vita, sia in termini di alimentazione che di esercizio fisico quotidiano, con il conseguente beneficio di una riduzione del peso corporeo e di un ritrovato benessere.
L’assunzione di un corretto stile di vita sembra dunque centrale per conservare nel tempo una buona salute, e assume un valore ancora più forte nel caso di una persona con diabete; è davvero così professore?
Il concetto di stile di vita è complesso. Se guardiamo all’alimentazione, non vuol dire solamente mangiare di meno. Oltre a ridurre la quantità di cibo, la persona dovrebbe prestare attenzione a cosa mangia, e a come mangia. La qualità degli alimenti che introduciamo nel nostro corpo è tanto importante quanto il modo in cui vengono preparati e al tempo che noi dedichiamo sia alla preparazione che al consumo del pasto. Curare la qualità del cibo è tutto questo assieme: vuol dire anche riappropriarsi dell’alimentazione mediterranea che ci appartiene per tradizione e cultura, ma che abbiamo dimenticato. Oggi molti italiani consumano in fretta e male cibi già pronti, processati industrialmente, pieni di grassi saturi e zuccheri. Sembra un paradosso, ma i paesi scandinavi si sono dimostrati molto più disponibili a recepire e applicare i principi della dieta mediterranea. Che poi non è altro che un’alimentazione frugale, semplice e varia, che utilizza i prodotti stagionali del territorio.
Ci sono inoltre altri fattori di rischio rilevanti, come il fumo o il consumo eccessivo di alcol. Nel caso dell’alcol – ma tuttora non c’è un consenso fra gli esperti – sono determinanti sia la quantità che la qualità. Per esempio, una modica quantità di vino rosso può fornire all’organismo polifenoli che svolgono un’azione antiossidante, oltre ad altri preziosi integratori naturali.
Infine c’è il tema del movimento, che non vuol dire fare esercizio fisico di tanto in tanto, ma significa invece muoversi con metodo, costanza e continuità, e soprattutto in modo appropriato rispetto alla condizione e ai bisogni della persona, in particolare se anziana.
Ci spieghi meglio professore, questo mi sembra un argomento cruciale…
Lo è. Ancora una volta ha a che fare con il concetto di stile di vita, ma affinché un comportamento diventi tale – il che presuppone l’applicazione regolare di alcune abitudini salutari – deve essere condiviso e accolto positivamente dalla persona. Come si fa? Il medico “per essere ascoltato deve riuscire ad ascoltare il proprio paziente”. Per esempio, non può limitarsi a elencare i vantaggi di un’attività fisica metodica, prescindendo dalla situazione reale della persona anziana che spesso presenta una serie di acciacchi legati all’età – il dolore al ginocchio, un’artrosi diffusa e altro.
– Ci sono evidenze che dimostrano l’efficacia di un cambiamento dello stile di vita sul diabete?
Sì, sappiamo che fare esercizio fisico per 150 minuti alla settimana, e modificare la propria dieta diminuendo il peso di almeno il 7%, può ridurre l’incidenza del diabete fino al 60%. Ci sono studi, cito fra gli altri l’EPIC, che mettono in correlazione lo stile di vita sano all’aumento dell’aspettativa di vita, anche fino a 14 anni in più.
Nel campo dei medicinali, ci sono novità dalla ricerca?
Esistono alcuni farmaci innovativi molto promettenti che verranno approvati a breve: agiscono sui sistemi di regolazione del glucosio e forniscono anche una notevole protezione cardiovascolare, agendo sia sul peso corporeo che sulla pressione. La tendenza oggi è di evitare il più possibile la politerapia, per prevenire gli effetti avversi che ne conseguono a carico del cuore e dei reni. Inoltre non guardiamo più solo al ‘target glicemico’, con l’obiettivo di raggiungere la glicemia perfetta, ma consideriamo il beneficio sistemico, cioè l’insieme degli effetti benefici che l’intervento suggerito dal medico può recare al paziente con diabete visto nella sua totalità.
Comunque, lo ripeto, dobbiamo agire in parallelo sul comportamento della persona, incoraggiandola ad assumere un nuovo stile di vita, più sobrio e salutare. Dobbiamo riappropriarci del senso della misura. Dobbiamo reimparare ad ascoltare il nostro corpo, e andare dal medico quando ci manda i primi segnali di malessere.
Secondo la sua esperienza, sul fronte della prevenzione, a livello comunitario, si potrebbe fare di più?
Va fatta in modo serio e sistematico educazione alimentare, a partire dall’infanzia, che vuol dire anche educazione al gusto e ai sapori, alla cultura del cibo e dei prodotti del territorio. Vanno incentivati programmi di educazione al movimento, che non vuol dire solo praticare una disciplina sportiva. Poi va aumentata la conoscenza della malattia da parte della popolazione con campagne di informazione seria, ma realizzate con un taglio divulgativo per arrivare a essere comprese da tutti.
A cura di Patrizia Salvaterra
Bibliografia
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