Intervista con il prof. Luca Savarino
A cura di Emiliano Loria
Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), fondato il 28 marzo 1990, è un organo della Presidenza del Consiglio dei Ministri che svolge funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni e ha altresì il compito di informare l’opinione pubblica sui “problemi etici emergenti con il progredire delle ricerche e delle applicazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute”. Il 14 dicembre 2023 il CNB ha presentato un documento ufficiale, “Parere sulle Cure Palliative”, che il nostro Dipartimento di Medicina Traslazionale ha discusso in un convegno tenutosi il 27 febbraio 2024 (riascoltabile cliccando qui). Cogliamo l’occasione di intervistare uno dei relatori, Luca Savarino, professore UPO di Bioetica e membro del CNB. Savarino ha approvato il parere del CNB in materia di Cure Palliative ma, con la professoressa Grazia Zuffa, è stato co-autore di una delle due relazioni di minoranza (l’altra è a cura del prof. Maurizio Mori) pubblicate in calce al parere stesso.
Quali sono i temi fondamentali del documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle Cure Palliative?
Rifacendosi alla letteratura scientifica internazionale più aggiornata sul tema, il documento mette in evidenza le grandi potenzialità delle cure palliative nella cura di diverse patologie, nelle varie fasi di malattia e nei diversi contesti assistenziali. Nel far questo, rivendica la necessità di potenziare l’offerta di cure palliative, oggi largamente insufficiente e distribuita in maniera territorialmente disuguale all’interno del sistema sociosanitario italiano. Per sensibilizzare il legislatore e gli operatori sanitari su questi temi, il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica muove da alcuni presupposti di fondo di carattere medico-sociale e mira a superare un pregiudizio largamente diffuso sia tra la popolazione generale sia tra gli addetti ai lavori. I presupposti del ragionamento riguardano il progressivo invecchiamento della popolazione italiana (e più in generale della popolazione dei paesi a reddito medio-alto); il miglioramento delle tecniche mediche – sia in ambito diagnostico che nella gestione della cronicità – e il conseguente allungamento del periodo di malattia individuale con i relativi costi a carico del sistema sanitario nazionale. Come vedremo, un ampliamento dei percorsi di cure palliative può contribuire non solo al benessere dei pazienti, ma serve anche a ridurre le spese legate a terapie inefficaci e indagini diagnostiche superflue, a ricoveri e cure intensive spesso inutili, che sono figlie di una concezione riduzionista e tecnicistica della pratica medica o, peggio ancora, di un atteggiamento “difensivistico” degli operatori sanitari che conduce a forme di ostinazione terapeutica irragionevoli: riguardo ai percorsi di fine vita, negli ospedali italiani si “cura” troppo, e molto spesso per la paura di essere accusati di aver curato troppo poco.
E riguardo al pregiudizio cui ha appena fatto cenno?
Va detto che la parola stessa “cure palliative” suscita spesso nei pazienti e nei loro familiari una reazione negativa immediata, perché evoca, nell’immaginario comune, l’idea di una patologia terminale e dell’approssimarsi della morte. Ovviamente su questo tipo di reazione pesa un fattore culturale molto rilevante all’interno delle società moderne laiche e secolarizzate – vale a dire la non accettazione della morte – ma è anche vero che tale reazione è in parte dovuta all’origine storica delle cure palliative, che sono nate e si sono sviluppate, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, per far fronte a quella che è stata definita una vera e propria “emergenza oncologica”. In realtà – come spiega il documento – oggi le cose sono molto cambiate perché le cure palliative non sono più limitate alla fase conclusiva della vita di un paziente, ma sono spesso cure palliative “simultanee” che si affiancano alle terapie che mirano a guarire il paziente o ad allungare il suo tempo di vita; in secondo luogo le cure palliative oggi non sono limitate al solo ambito oncologico ma svolgono un ruolo fondamentale nella gestione di molte malattie croniche (penso per esempio alle malattie neurodegenerative e all’importanza delle cure palliative nella gestione di tali malattie fin dal momento della loro insorgenza). A questo proposito il documento sottolinea anche il fatto che, nonostante la legge 38/2010 sulle cure palliative preveda campagne di sensibilizzazione sul tema che possono contribuire a sfatare questo tipo di pregiudizi, “la realizzazione effettiva e l’impatto di tali campagne non sembrano aver colmato il divario informativo, lasciando ampi strati della popolazione privi di conoscenze essenziali non solo sulle cure palliative, ma anche e soprattutto sulla gestione del dolore”. L’auspicio è dunque quello che siano implementate tali campagne informative rivolte alla popolazione generale, garantendo che siano chiare, aggiornate, efficaci e facilmente accessibili.
Il documento parla di “dolore totale”, concetto introdotto da Cicely Saunders nell’assistenza ai malati terminali, e fa riferimento a un “approccio globale” al malato e a una sofferenza che investe tutte le sfere di vita del paziente, non solo quella fisica. Che cosa si vuole intendere precisamente?
Con ‘approccio globale’ si vuole intendere un approccio terapeutico olistico che intende farsi carico di tutti gli aspetti della sofferenza del paziente, non solo quelli legati al dolore fisico, ma anche quelli di carattere psicologico, sociale e “spirituale”. Il concetto di “cura”, in tal modo, si allarga ben oltre la dimensione della guaribilità e più in generale del prolungamento della vita e resta attivo fino alla fine della vita del paziente. Al tempo stesso, con approccio “olistico” si intende un orientamento terapeutico che mira a farsi carico non solo dei bisogni del paziente, ma anche di coloro che appartengono al suo nucleo familiare e affettivo e che includono anche coloro che sono definiti, all’interno del documento, i caregivers formali, cioè gli operatori sanitari focalizzati sul paziente. “Tale approccio”, si legge, “richiede una profonda comprensione e un’estrema sensibilità verso le diverse dimensioni dell’esperienza umana che si intrecciano con la malattia”. Il riferimento alla famiglia, e in generale ai caregivers, è fondamentale, perché il coinvolgimento dei familiari può rappresentare un elemento facilitatore del percorso terapeutico, come è evidente a tutti coloro che si occupano della pratica clinica quotidiana dei malati. Questo presuppone altresì, come stabilisce la legge e prescrive l’etica medica (si veda a questo proposito l’art. 20 del Codice di deontologia medica), che la diagnosi, la prognosi e le indicazioni terapeutiche debbano essere comunicate con chiarezza e decise assieme al paziente. Perché ciò avvenga, gli attori del percorso terapeutico dovrebbero essere informati e coinvolti con chiarezza e tempestività: in caso contrario, possono insorgere situazioni relazionali complesse tra pazienti, familiari ed équipe sanitaria.
Perché sottolinea la tempestività della comunicazione quale fattore determinante per le cure palliative?
Una comunicazione medico-paziente non adeguata, proprio nei termini di mancata chiarezza e tempestività – fenomeno purtroppo molto più diffuso di quanto si creda all’interno della cultura medica italiana – può creare problemi, innanzitutto al paziente, ma anche al personale ospedaliero, e può essere dovuta a diversi fattori. Tra questi, una visione “tecnicistica” della medicina che fa sì che il tempo della comunicazione tra medico e paziente non sia percepito adeguatamente come tempo di cura, a differenza di quanto prescrive la legge 219 del 2017. Questo può avvenire sotto forma di mancata comunicazione tra più reparti ospedalieri che hanno in carico il paziente, o di mancata comunicazione tra diverse figure professionali, per esempio tra medici e infermieri che, mi pare giusto ricordarlo, sono le figure professionali più prossime al paziente, e quindi in grado di capirne i bisogni, le comprensibili paure anche, nonché le aspettative. Una cattiva comunicazione produce a cascata una serie di distorsioni che inficiano la gestione ottimale del paziente: in molti casi, per esempio, nel momento in cui un medico decide che è opportuno sospendere un trattamento e affidare il paziente a una struttura di cure palliative, si trova di fronte a una serie di difficoltà spesso insormontabili se il paziente non conosce la patologia da cui è affetto o se la famiglia chiede al medico di non comunicare al soggetto interessato la diagnosi.
La lettura del Parere elaborato dal Comitato Nazionale per la Bioetica è veramente stimolante, come possiamo capire anche dalle sue parole. Pur non potendo affrontare tutti i punti del Documento, vorrei sottolineare con lei quanto sia radicale e innovativo il ruolo che potrebbero e dovrebbero assumere le cure palliative.
La sfida che abbiamo davanti nel campo delle cure palliative sta nel riuscire ad attuare un cambiamento di paradigma all’interno del concetto stesso di “cura”. L’obiettivo, come abbiamo già ricordato, è quello di intendere la cura come un concetto multiforme, che non coincide esclusivamente con il tentativo di guarire il paziente e di allungare a tutti i costi la sua vita. La dismissione di questo approccio favorirebbe l’affermarsi di un modo nuovo di ‘cura’ che, come abbiamo visto, va intesa in senso molto più ampio, andando a includere aspetti psicologici del paziente – non solo fisici quindi – e a coinvolgere anche il benessere di tutti quegli attori che ruotano intorno al paziente, a beneficio del paziente stesso. Si vede bene, allora, quanto sia importante in termini di efficacia la precocità di una presa in carico di tipo palliativo e precondizione perché questo avvenga è una adeguata modalità di comunicazione. Per questo motivo il documento raccomanda di promuovere a tutti i livelli un approccio educativo che superi l’approccio riduzionista focalizzato esclusivamente sulla malattia, preparando gli operatori a gestire, con empatia e competenza al tempo stesso, le sfide associate alle fasi di transizione verso la morte, valorizzando la dignità e la complessità dell’esperienza umana.
Occupandomi di pedagogia medica in UPO, mi viene da pensare però che questo “punto di svolta”, come lo ha chiamato lei nel corso della conferenza, o “cambio di paradigma” come ha appena menzionato, possa essere attuato non solo a seguito di una sensibilizzazione del legislatore, ma anche, o meglio, soprattutto in virtù di una adeguata formazione del personale sanitario.
Certamente, un’adeguata formazione è imprescindibile e a tal riguardo il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica evidenzia esplicitamente l’esigenza “di una formazione di alto livello per i professionisti sanitari e l’importanza della ricerca per lo sviluppo di trattamenti e pratiche innovative”, che purtroppo, viene da aggiungere, sono ancora carenti. Di qui l’auspicio che venga ampliata un’offerta formativa pre-laurea che sia in grado di assicurare a tutti gli operatori le competenze necessarie a identificare tempestivamente il bisogno di cure palliative in ogni contesto sanitario e che vengano istituiti percorsi formativi post-laurea obbligatori per tutti gli operatori sanitari che operano nel campo delle cure palliative, al fine di garantire l’acquisizione di competenze avanzate, necessarie ad assicurare un’assistenza di alta qualità. Per favorire la crescita di una visione maggiormente comprensiva della medicina, sia come disciplina rivolta al trattamento della malattia (to cure), sia come attenzione alla soggettività del paziente (to care) sarebbe infine opportuno arricchire i programmi formativi di studenti e specializzandi con moduli di bioetica che forniscano al personale sanitario gli strumenti necessari per affrontare i dilemmi etici associati ai trattamenti terapeutici e diagnostici che emergono nel percorso di malattia alla fine della vita.
Come si vede, il lavoro non manca, ma siamo sulla buona strada!