Uno studio di coorte UPO mostra che, a 4 mesi dalla dimissione, molti degli ospedalizzati si portano dietro dei postumi invalidanti.

Fortunatamente, più il tempo passa, più cose sappiamo della malattia da SARS-CoV-2, altrimenti detta COVID-19. È già noto che può avere decorso di gravità molto diversa da paziente a paziente, qualora si manifesti nella sua forma sintomatica. Conosciamo i principali fattori di rischio e anche il tasso di mortalità degli ospedalizzati, coloro che hanno sviluppato la forma più grave della malattia.

Tra gli aspetti ancora poco chiari restano gli strascichi di lungo periodo per gli ospedalizzati che sono riusciti a guarire. L’Università del Piemonte Orientale ha indagato su questo importante quesito di salute pubblica con uno studio di coorte che ha valutato lo stato di salute di questi pazienti dopo un periodo di quattro mesi dalla loro dimissione per avvenuta guarigione.

Ce ne parla Mattia Bellan, primo firmatario dello studio pubblicato su JAMA Network. Il dottor Bellan è ricercatore in Medicina Interna per UPO e svolge attività clinica nell’ambito della Medicina Interna e dell’Immunoreumatologia nell’Ospedale Maggiore di Novara. La sua ricerca si focalizza sulle patologie reumatiche degli anziani, oltre che sugli aspetti clinici relativi a pazienti internistico ospedalizzato.

Il 27 gennaio è stato pubblicato un articolo che riporta un lavoro del suo gruppo sulla COVID-19. In quello studio non avete valutato dei casi clinici di persone malate ma vi siete concentrati su chi è guarito dopo un periodo di ospedalizzazione. Quali sono le osservazioni che vi hanno portato a fare questa scelta?

Questo progetto è nato come multidisciplinare, coinvolgendo molti clinici dell’Ospedale Maggiore: pneumologi come il dottor Balbo, psichiatri come le professoresse Zeppegno e Gramaglia e fisiatri come il dottor Baricich, perché noi tutti siamo stati pienamente coinvolti nella fase acuta della prima ondata di COVID, come poi è successo anche per la seconda ondata. Ciascuno di noi si è chiesto fin dai primi casi come sarebbero andate le cose nel tempo – soprattutto per i pazienti con i quadri clinici più gravi a carico della funzionalità polmonare. Tutti quanti abbiamo osservato che questo virus sta lasciando strascichi di vario tipo e ha un comportamento molto particolare rispetto alle malattie precedentemente note, così abbiamo scelto di organizzarci non appena l’ondata è scesa.

La nostra scelta è stata di rivalutare i pazienti dimessi, con un intento clinico nei loro confronti e anche per cogliere la possibilità di capire cosa attendersi a qualche mese di tempo da una fase acuta di COVID. Si è trattato di un vero e proprio sforzo corale dei clinici di Novara incentrato sui nostri pazienti COVID, che abbiamo convocato per sottoporli in un’unica soluzione a indagini di tipo respiratorio, motorio e psichiatrico.

Quindi lei e il suo gruppo avete voluto fare un passo oltre allo scampato pericolo. Vi siete chiesti quali siano i postumi che si può portare dietro una persona dopo la dimissione iniziando da quelli a carico dell’apparato respiratorio e della motilità. Cos’ha rivelato la vostra indagine?

Sostanzialmente che, a seguito della remissione da importanti quadri di infezione polmonare dovuti al virus, buona parte dei pazienti che siamo riusciti a rivalutare ha una funzionalità respiratoria inferiore al previsto.

Qui c’è da fare una precisazione: per capire realmente l’impatto della malattia sarebbe stato utile avere dati di funzionalità respiratoria prima e dopo l’ospedalizzazione per COVID; ovviamente ciò non è stato possibile perché la maggior parte dei pazienti non aveva una storia di malattia polmonare preesistente e non aveva mai eseguito tali accertamenti. Per questa indagine abbiamo contattato i 767 pazienti dimessi da ospedalizzazione per COVID a seguito della prima onda. Siamo riusciti a procedere con solo 238 di loro perché circa il 5% degli ospedalizzati dimessi è purtroppo deceduto nel frattempo, mentre buona parte dei restanti per varie ragioni non ha voluto o potuto partecipare allo studio.

Tornando ai risultati, la percentuale di pazienti con valori chiaramente inferiori rispetto all’atteso in base a sesso ed età è comunque molto rilevante: circa la metà dei 238 pazienti valutati ha dimostrato di non aver pienamente recuperato la funzionalità respiratoria. A questo, sempre circa nel 50% dei casi, si è associata una riduzione più o meno grave delle performance fisiche, della quale la diminuita funzionalità respiratoria è ragionevolmente tra le maggiori cause.

Ci sono altri sintomi che non sempre terminano a guarigione avvenuta?

La cosa che i pazienti più comunemente riferiscono è di non essere tornati quelli di prima, di provare una sensazione di stanchezza cronica, l’astenia, che è coerente con la diminuzione della performance motoria e che interessa intorno al 20% dei pazienti esaminati.
Si tratta di un sintomo altamente impattante sulla qualità della vita quotidiana, come anche gli altri sintomi correlati con lo stato infiammatorio delle vie respiratorie in fase acuta, che tendono però a migliorare nel tempo.

A seguire, alcuni pazienti hanno riferito di sperimentare ancora una riduzione nella percezione di odori e sapori mentre in altri persistono dolori muscolari e articolari.

Il quadro delineato dal suo studio non si limita alle complicanze fisiche. In alcuni dei “veterani” della prima onda pandemica avete anche cercato ripercussioni sullo stato psicologico. Che cosa è emerso?

In questo studio abbiamo analizzato principalmente i sintomi riferibili a disturbo post-traumatico da stress, raccogliendo anche dati su ansia e depressione che però analizzeremo in studi successivi.

L’evidenza che abbiamo raccolto è che una percentuale non trascurabile dei pazienti ha effettivamente sintomi da disturbo post traumatico da stress, una condizione dovuta a un trauma psichico e che si può manifestare anche a distanza di mesi.

Qui l’effetto della malattia e della gravità della sua manifestazione non è diretto perché lo stato psichico di un individuo dipende dal suo vissuto e dal suo percepito. Paradossalmente la sensazione è che nei casi più gravi, chi è stato in terapia intensiva, possa prevalere un senso di sollievo e gratitudine per lo scampato pericolo. I pazienti che hanno invece sperimentato più fortemente la paura di morire, delle dinamiche negative come lo stigma sociale che inizialmente gravava sui malati di COVID oppure i pazienti che hanno avuto lutti legati alla malattia mostrano, comprensibilmente, delle ripercussioni psicologiche più gravi.

Avete rilevato caratteristiche che accomunano i pazienti con i postumi di più lunga durata o di più grave entità?

Un aspetto che ci ha stupito è che sugli strascichi che seguono la guarigione l’età avanzata influisce relativamente poco. Certamente ha un impatto forte sulla prognosi durante la fase acuta e grave della malattia, ma dopo l’avvenuta guarigione è anzi la giovane età a portare, probabilmente, a una percezione più marcata della diminuzione della propria capacità fisica e delle limitazioni associate.
Un altro fattore che influenza negativamente la presenza di postumi fisici di più lunga durata è, senza sorprese, la presenza di malattie pregresse come le bronchiti croniche che contribuiscono ai danni a carico del sistema respiratorio.

Sono in corso altre osservazioni per capire quali siano le prospettive di chi mostra ancora dei sintomi fisici a 4 mesi dalle dimissioni?

La nostra intenzione è di valutare nuovamente questa stessa coorte di pazienti a distanza di un anno e ci stiamo muovendo per ricostruire e anzi potenziare il gruppo di ricerca per studiare altri aspetti che non abbiamo toccato durante la prima fase.

Se mi chiede le mie sensazioni e speranze a riguardo direi che una buona fetta di pazienti, soprattutto quelli che mostrano i quadri più lievi, avranno la speranza di riacquistare le loro piene funzionalità. È comunque possibile che una parte dei pazienti con i danni più gravi a carico della struttura polmonare non riuscirà a recuperare completamente dal punto di vista funzionale.

Si tratta ovviamente di aspetti che è prematuro valutare, per pronunciarci c’è da aspettare gli esiti degli studi di lunga durata condotti qui a Novara come altrove, ma qualora questi danni venissero realmente scoperti permanenti ci si auspica che ai pazienti venga riconosciuta ufficialmente una situazione di invalidità.

In ultimo vorrei spendere due parole per qualcosa a cui tengo molto, cioè ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questo studio, in particolare i medici in formazione. Gli specializzandi della nostra università sono stati una risorsa fondamentale sia per affrontare la prima e la seconda ondata di COVID nel novarese, sia dal punto di vista clinico e operativo che per portare avanti studi come questo.

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