Tutti gli uomini invecchiano, ma non più come una volta. Se mettessimo a confronto l’autoritratto di Leonardo Da Vinci del 1513 con un selfie di Richard Gere del 2012 stenteremmo a credere che si tratta di due coetanei, eppure è così: due uomini poco più che 60enni.
Secondo la Genesi, il patriarca Abramo visse 175 anni. Suo figlio, Isacco, arrivò a compierne 180. Due giovincelli, se si pensa che i patriarchi antidiluviani come Set, Matusalemme e Noè (vissuti, appunto, prima del Diluvio Universale) morirono, stando al racconto biblico, rispettivamente a 912, 969 e 950 anni. Ancora oggi con l’appellativo “matusalemme” o “matusa” ci si riferisce con accezione dispregiativa a una persona molto vecchia, nel senso di antiquata, retrograda, fossilizzata su una visione del mondo anacronistica e desueta. Talvolta questa immagine si accompagna all’idea di un corpo senescente: stanco, lento, curvo e raggrinzito, con i lineamenti scavati e la voce tremolante.
Ma la vecchiaia corrisponde ancora a questa descrizione? La sua rappresentazione aggiornata può essere ricondotta all’iconografia livida e stereotipata che si è cristallizzata nella storiografia e nella letteratura? Certo, se oggi potessimo davvero raggiungere i 180 anni di vita probabilmente il nostro aspetto sarebbe quello, anche nella migliore condizione di salute. Ma, senza scomodare i patriarchi, fino a alla metà del secolo scorso la gran parte degli over 70 aveva davvero le sembianze di un ultracentenario.
È ancora così? Non sempre. Nei contesti socio-economici più avanzati, quasi mai. Che cosa è cambiato, dunque?
La vecchiaia: un inesorabile declino?
Le immagini della vecchiaia nella percezione filosofica e artistica sono estremamente variegate, non solo per l’avvicendarsi storico di paradigmi diversi, ma anche per la coesistenza di interpretazioni contrastanti all’interno della medesima epoca storica. Una complessità tutt’altro che risolta, in cui riproduzioni grottesche convivono con celebrazioni e apologie, in un labirinto di concezioni che caratterizza ancora oggi il ritratto polarizzato della vecchiaia: esperienza e rispettabilità da un lato, fragilità e orrore dall’altro.
Nella medicina della Grecia classica la vecchiaia era considerata una patologia: il Corpus Hippocraticum individua la causa principale dell’invecchiamento in una progressiva perdita di calore e di forza vitale che rende il corpo dell’anziano sempre più freddo e secco, simile alla salma di un cadavere.
Molto fertile in età ellenistica fu anche la rappresentazione di donne anziane ripugnanti e non più desiderabili: megere, depravate e corrotte, quasi che il deturpamento esteriore fosse lo specchio di un deterioramento morale.
D’altro canto, la riflessione politica di Platone identificava i reggenti migliori con i filosofi anziani di età superiore ai 50 anni e negava ogni valore al decadimento corporeo, ritenendo che l’essenza e la verità dell’uomo risiedessero unicamente nell’anima e nelle virtù interiori. Nel Menone, inoltre, asseriva che “conoscere è ricordare”, e chi, più dell’anziano, è ricco di memoria e dunque depositario di sapere e conoscenza? A Sparta, poi, si realizzò il modello perfetto di gerontocrazia, il governo degli over 60.
Anche Cicerone riconosceva solo al senex le qualità fondamentali per guidare la società e le generazioni future: saggezza, autorità, prestigio, esperienza e competenza. Nel De Senectute scrive che la vecchiaia appare triste e infelice almeno per 4 motivi: allontana dalle attività quotidiane, indebolisce il corpo, priva di quasi tutti i piaceri, pone l’uomo ad un passo dalla morte. Cicerone smonta ad uno ad uno questi luoghi comuni, con un’impresa di riabilitazione della vecchiaia che insiste sull’importanza della prevenzione e dello stile di vita per una terza età serena, attiva e in salute. Ecco la lezione del grande oratore romano: dire addio alla freschezza della gioventù non vuol dire necessariamente piombare in un baratro di inadeguatezza fisica e psichica: è possibile anche elaborare una versione di sé sana e prospera, non più decadente ma più matura.
Già nel mondo classico, dunque, la vecchiaia non è solo un dato biologico ma anche un destino psicologico e storico-culturale, che può essere condizionato da pratiche, approcci e strategie. Ed è proprio qui che germoglia per la prima volta l’idea di un invecchiamento attivo, affiorata a più riprese nel corso della storia, in mezzo a raffigurazioni di anziani malridotti, decrepiti e pubblicamente derisi.
Senescenza e longevità: dalla vetustas all’active aging
La difficoltà di guardare all’anziano in maniera univoca deriva in parte dalla natura stessa dell’oggetto che stiamo indagando: chi è l’anziano? Quando lo si diventa? La risposta non è immediata, perché legata ai contesti storico-geografici e al progressivo aumento della durata media di vita, che ha protratto nel tempo le condizioni di piena autosufficienza dell’anziano. Nel Medioevo un ragazzo di 15 anni nato in una famiglia benestante poteva aspettarsi di vivere fino a circa 70 anni, ma la mortalità natale e perinatale era all’ordine del giorno, configurando l’anzianità come una conquista riservata a pochi fortunati. Oggi, in Italia, gli ultra-65enni sono 14 milioni e una persona che ha raggiunto questo traguardo può aspettarsi di vivere ancora per altri 22,3 anni. Un dato analogo è stato stimato per gli abitanti di Spagna, Francia, Giappone e Corea.
Insomma, quella che era “la vecchiaia” 500 anni fa, oggi non è più un fenomeno eccezionale ma una condizione diffusa che ha indotto sociologi e scienziati a spostare sempre più avanti l’inizio della terza età (alla quale segue una quarta età e persino una quinta). Questo processo ha reso più difficile la definizione di “anziano”, diventato una sorta di termine ombrello che si riferisce a 4 gruppi differenti: giovani anziani (64-74 anni), anziani (75 – 84 anni), grandi anziani (85 – 99 anni) e centenari. Come si vede, il criterio dell’età anagrafica, un tempo sufficiente a identificare l’anziano, è diventato molto più labile, perdendo buona parte della sua utilità. Nel ventunesimo secolo l’invecchiamento va inteso, più che come una questione meramente anagrafica, come un processo multifattoriale che coinvolge vari aspetti: biologici, culturali, sociali ed economici.
Che cosa accade davvero quando si raggiunge una certa età?
Un tempo si riteneva che la vecchiaia coincidesse esclusivamente con un insieme di “perdite”: la densità ossea si riduce, la cartilagine che riveste le articolazioni si assottiglia, la forza muscolare diminuisce, le capacità sensoriali peggiorano, il segnale nervoso avanza più lentamente, solo per citare alcuni cambiamenti legati all’età. Ma oggi sappiamo che con il passare degli anni si acquisiscono anche nuove abilità, di natura affettiva, sociale e cognitiva. Superando il riduzionismo organico e guardando alla persona nella sua totalità, non dovremmo parlare di “perdita”, ma di una “riconfigurazione”.
Uno studio finlandese pubblicato sul Journals of Gerontology ha messo a confronto la salute di uomini e donne di 75 anni e di 80, con la salute dei loro coetanei di trent’anni fa. Gli anziani di oggi hanno ottenuto punteggi migliori rispetto a tutti i parametri considerati: velocità del passo, forza muscolare, riflessi, capacità di ragionamento, fluidità linguistica, memoria a breve termine e funzionalità polmonare. Anziani più reattivi nei movimenti, più veloci nel ragionamento, più abili nella capacità di elaborare le informazioni. Secondo i ricercatori, la ragione di questo successo dipende dallo stile di vita, in particolare dall’attività fisica e dai livelli di istruzione, in crescita rispetto al passato. Si vive più a lungo, ma si vive anche meglio: la terza età sopraggiunge più in là con gli anni e l’umanità trascorre circa un ventennio in un’età di mezzo sempre più ampia, che include persone di 50 anni ma anche persone di 70.
Per farla breve, gli anziani di oggi sono più giovani di quelli di ieri.
D’altra parte l’allungamento dell’ultima fase della vita si associa ad una maggiore probabilità di sviluppare malattie croniche, comorbilità e condizioni di fragilità che possono minare seriamente la prospettiva di un invecchiamento sano. In Italia, soffre di malattie croniche oltre l’85% delle persone con più di 75 anni. Ipertensione arteriosa, diabete, malattie cardiovascolari e respiratorie sono delle vere e proprie minacce per l’autonomia dell’anziano e richiedono una precisa gestione clinica e sociale. Esiste poi tutta una serie di limitazioni non patologiche, legate alla vecchiaia, che pur non necessitando di interventi sanitari necessitano di assistenza sociale: ad una certa età si diventa più vulnerabili, ad esempio più esposti al rischio di cadute e allo sviluppo di deficit cognitivi e di linguaggio.
La sfida del mondo contemporaneo, allora, non è tanto invecchiare, ma invecchiare bene.
L’avanzare dell’età predispone allo sviluppo di malattie ma un invecchiamento di successo è possibile anche in presenza di patologie croniche. È importante che ogni individuo attui strategie di adattamento ai cambiamenti fisici, cognitivi e sociali che l’anzianità comporta, al fine di condurre una vita quanto più autonoma possibile. Se all’invecchiamento non si accompagna un certo grado di benessere fisico, mentale e sociale, la longevità assume i connotati del decadimento funzionale e si riduce a un processo biologico involutivo, in una sola parola: senescenza.
Come scongiurare questo rischio? Il segreto è mantenersi attivi e in salute anche quando l’organismo non è più giovanissimo, cominciando prima dei 40 anni. Il paradigma dell’healthy and active aging prende in considerazione i fattori modificabili sui quali si può agire per ridurre l’impatto del tempo che passa e migliorare la qualità dell’invecchiamento. Consiste nell’adozione di uno stile di vita sano e di un atteggiamento preventivo, che significa non solo alimentarsi correttamente e svolgere un’adeguata attività fisica per tutto l’arco della vita, ma anche intrecciare buone relazioni sociali, incentivare le emozioni positive, partecipare alla vita della comunità, coltivare hobby e interessi gratificanti attraverso il rapporto con l’arte, la cultura e l’ambiente, tenere viva la tensione al futuro, la dimensione del progetto e del desiderio.
Anche se gli sforzi compiuti finora dalle politiche sociali occidentali non sono stati sempre in grado di favorire il consolidarsi di questo paradigma, una cosa è certa: grazie alla tecnologia e allo sviluppo del sistema di welfare l’anziano di oggi, a differenza dell’anziano di ieri, appare meno incline ad un atteggiamento di rinuncia verso la vita e possiede maggiori risorse per sentirsi appagato. È sempre più motivato a investire le proprie energie piuttosto che a rimanere inoperoso, sempre più desideroso di affermare il proprio valore al di là degli stereotipi e dei pregiudizi che ancora lo colpiscono.
Fonti:
Una vecchia storia | Storia della vecchiaia | dalla Grecia arcaica alla tarda antichità
Quando si diventa anziani? – SIGG Società Italiana di Gerontologia e Geriatria
Senilità. Immagini della vecchiaia nella cultura occidentale – G. Pinna, Pott H.-G, Edizioni dell’Orso, 2011