Gli effetti della vitamina D sono un argomento di discussione scientifica molto attuale e tutt’altro che esaurito. La stagione estiva che stiamo attraversando permette di ragionare su quale sia il metodo più efficace per procurarci questa molecola sorprendente, che sta rivelando sempre più, a mano a mano che le scoperte scientifiche progrediscono, le sue straordinarie e benefiche proprietà.
Il termine “vitamina” è in un certo qual modo improprio per questa molecola; gli esseri umani, infatti, sono già da sé in grado di avviare, nella propria pelle, il lungo processo che porta alla produzione di vitamina D3 quando esposti alle radiazioni UV-B, ma variazioni stagionali, copertura degli abiti e vita condotta principalmente in ambienti chiusi, casa o ufficio, spesso rendono necessaria l’integrazione di questa sostanza con la supplementazione alimentare, attraverso la scelta di alimenti che ne sono ricchi o, in altri casi, attraverso integratori specifici. La forma più attiva è la 1alfa,25-diidrossivitamina D, che si forma dopo una serie di passaggi che coinvolgono anche il fegato e il rene.
Esistono alcune controversie sul livello ottimale della vitamina D nel sangue, dal momento che non ne viene misurata la forma più attiva, ma quella più stabile e cioè la 25-idrossivitamina D e pertanto il diverso fabbisogno giornaliero raccomandato è di difficile determinazione.
Una possibile risposta può essere fornita dal concetto di indice personale di risposta alla vitamina D che descrive l’efficienza della risposta molecolare alla supplementazione con vitamina D. Il concetto si basa sul fatto che la vitamina D3 agisce tramite un fattore di trascrizione chiamato VDR (recettore della vitamina D) e quindi ha un effetto diretto sul genoma di molti tessuti e tipi di cellule umani. In base alla loro sensibilità alla vitamina D, gli individui possono quindi essere distinti in responder alti, medi e bassi misurando i parametri molecolari sensibili alla vitamina D, come i cambiamenti nello stato epigenetico e la rispettiva trascrizione dei geni delle cellule immunitarie del sangue, il livello di proteine specifiche o ancora i metaboliti nel siero.
Pertanto, l’indice di risposta alla vitamina D è una proprietà epigenetica (termine che indica la possibilità che sequenze identiche di DNA possano essere interpretate in maniera differente).
Gli individui che sono molto sensibili alla vitamina D, cioè hanno un indice di risposta alla vitamina D elevato, possono beneficiare anche di basse concentrazioni sieriche di vitamina D, in quanto si presume che ne sopportino bene un livello basso. Queste persone dovrebbero quindi essere meno colpite da quei disturbi non trasmissibili contro i quali la vitamina D ha una funzione protettiva. Al contrario, le persone con un basso indice di risposta alla vitamina D dovrebbero puntare a un elevato livello di vitamina D, al fine di ottenere ancora il massimo beneficio dal suo ruolo protettivo.
Ciò suggerisce che la dose di fabbisogno giornaliero di vitamina D dovrebbe essere adattata all’indice di risposta alla vitamina D di ogni singolo individuo.
Ma è proprio necessario integrare la Vitamina D?
Fin dai tempi antichissimi, in cui l’uomo è passato da essere cacciatore/raccoglitore a coltivatore e, più recentemente, con la Rivoluzione Industriale degli ultimi 200 anni, lo stile di vita di quasi tutte le popolazioni umane in merito ai parametri biochimici e fisiologici è radicalmente mutato. Ad esempio l’attività fisica, la composizione della dieta e il microbiota intestinale sono ormai totalmente diversi, e ciò ha provocato squilibri omeostatici che sono probabilmente alla base di “malattie non trasmissibili” come il diabete, le malattie autoimmuni e il cancro. L’aumento di queste malattie è inversamente correlato al basso tasso medio di produzione endogena di vitamina D3 degli esseri umani, che sono ancora geneticamente adattati principalmente alle condizioni ambientali e allo stile di vita dei loro antenati nelle savane dell’Africa orientale. Da ciò deriva che nel mondo moderno la carenza di vitamina D è molto diffusa soprattutto negli anziani, che trascorrono meno tempo al sole e che spesso seguono un regime alimentare povero di vitamina D, ma anche nei giovani che però sono colpiti soprattutto nella stagione invernale.
Sole o integratori?
È risaputo che una moderata esposizione al sole è sufficiente per mantenere livelli adeguati di vitamina D. Gli esperti ritengono che circa 5–30 minuti di esposizione alla luce solare tra le ore 10 e le 15 nella maggior parte delle latitudini popolate dall’uomo, almeno due volte a settimana, che irradi il viso, le braccia, le gambe o la schiena, ma senza protezione solare, possono fornire la quantità necessaria di vitamina D. Ovviamente, la produzione di vitamina D è grandemente influenzata dalle stagioni e, allo stesso modo, in alcune latitudini, la vitamina D non viene sintetizzata nemmeno nelle ore consigliate. Un sistema empirico per sapere se i raggi solari hanno un angolo efficace per la produzione di vitamina D consiste nel porre una penna in verticale sotto il sole. Se l’ombra proiettata è più corta della penna stessa, allora il momento è buono.
D’altra parte, uno degli argomenti forti dei sostenitori dell’assunzione di integratori di vitamina D è che essi possono essere assunti quotidianamente, mentre l’esposizione solare UVB non può essere garantita quotidianamente a causa dell’imprevedibilità del tempo. Inoltre, l’uso della protezione solare può influire grandemente; una crema solare con un fattore di protezione solare di 30 assorbe circa il 95-98% della radiazione UV-B solare e riduce notevolmente la capacità della pelle di generare vitamina D3. Occorre però ricordare che un’eccessiva esposizione ai raggi UV presenta alcuni pericoli noti. Il melanoma maligno è un tumore aggressivo in cui si ritiene che la radiazione UV sia un fattore causale Sono pertanto necessari nuovi studi per determinare la quantità di esposizione ai raggi UV necessaria per la sintesi di vitamina D senza aumentare il rischio di sviluppare il cancro della pelle.
Conseguenze dell’eccessivo consumo di vitamina D
L’esposizione prolungata alla luce solare non induce mai tossicità da vitamina D poiché la pelle ha la capacità di foto-degradare la vitamina D3 mentre si forma, attraverso un meccanismo di autodifesa contro la sovraproduzione. Infatti, la vitamina D3, se viene prodotta in eccesso, si accumula nella pelle dove viene inattivata dalla stessa luce solare che l’ha generata.
L’accumulo di vitamina D associato agli integratori può invece indurre effetti avversi, che vanno dall’anoressia alla perdita di peso, dall’aumento della produzione di urina alle aritmie cardiache. È, tuttavia, importante ricordare che la tossicità della vitamina D conseguente al consumo di integratori non è sempre un problema quantitativo, ma può anche essere un problema qualitativo e possono essere osservati effetti avversi indotti da integratori, anche nello stato di ipovitaminosi D.
Alcuni esperti ritengono improbabile che un’assunzione giornaliera di integratori di vitamina D inferiore a 4000 UI al giorno produca effetti avversi.
Il comportamento corretto
Per la maggior parte degli adulti, la dose giornaliera di vitamina D raccomandata (RDA) è di 600 UI al giorno. Nonostante l’efficacia della moderata esposizione alla luce solare per garantire livelli adeguati di vitamina D, la nostra dipendenza dagli integratori sta crescendo e spesso sta diventando la scelta primaria. Gli esperti hanno raccomandato che è utile l’esposizione al sole moderata (vale a dire per un periodo inferiore al tempo necessario per subire scottature) alle braccia, alle spalle, al tronco e alle gambe. Alcuni studi suggeriscono anche che è possibile produrre vitamina D in maniera sicura dalla luce solare durante i mesi primaverili, estivi e autunnali e immagazzinarla nel fegato e nel grasso per usarla durante l’inverno.
Quindi il comportamento più corretto dovrebbe essere lo sfruttamento sicuro dell’esposizione solare, magari associato all’alimentazione di cibi ricchi di vitamina D, come il salmone o il pesce azzurro. Gli integratori, se usati alle dosi consigliate, rimangono comunque una valida risorsa per i periodi dell’anno a basso irraggiamento solare.
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Riferimenti bibliografici
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