Il percorso della ricerca sulla malattia di Alzheimer

Per quasi trent’anni la ricerca sulla malattia di Alzheimer si è basata sulla “ipotesi amiloide”, secondo la quale la malattia si sviluppa a causa dell’accumulo di placche formate dalla proteina beta-amiloide nel tessuto cerebrale. Ne è derivata quindi l’idea che la rimozione di queste placche avrebbe potuto rallentare, o idealmente arrestare, la progressione della demenza. Questa visione ha influenzato profondamente non solo lo sviluppo di trattamenti, ma anche la distribuzione dei finanziamenti e le traiettorie di ricerca per decenni.

Tuttavia, l’evoluzione della ricerca ha messo in luce i limiti di questo approccio. L’elemento che ha destato maggiori perplessità è stata l’individuazione di placche amiloidi anche in anziani con funzioni cognitive intatte, suggerendo che il solo accumulo di questi depositi non basti a scatenare la sintomatologia clinica della malattia di Alzheimer. Inoltre, i farmaci anti-amiloide di nuova generazione, pur riducendo efficacemente le placche cerebrali, hanno mostrato benefici inferiori alle aspettative e il loro profilo di sicurezza ha sollevato preoccupazioni, a causa del rischio di edema cerebrale e microemorragie, rendendo necessaria un’attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio.

Nonostante le crescenti evidenze che ne mostrano i limiti, l’ipotesi amiloide continua a dominare la ricerca sull’Alzheimer. Questo fenomeno è influenzato da diversi fattori interconnessi. In primo luogo, le considerazioni economiche sono state decisive: le aziende farmaceutiche hanno investito molto nello sviluppo di terapie focalizzate sulla proteina amiloide, quindi abbandonare questa teoria comporterebbe importanti perdite finanziarie. In ambito accademico, i ricercatori che hanno costruito la propria carriera sull’ipotesi amiloide tendono a resistere al cambiamento anche a causa dei meccanismi di finanziamento e pubblicazione, che premiano la continuità rispetto alle innovazioni radicali. Infine, in un campo complesso come quello delle malattie neurodegenerative, la semplicità dell’ipotesi amiloide è più facilmente comprensibile e utile per la comunicazione scientifica e la pianificazione delle strategie terapeutiche.

Oltre l’amiloide: nuovi orizzonti per la ricerca

I risultati insoddisfacenti ottenuti finora non vogliono necessariamente dire che l’ipotesi amiloide sia completamente errata, ma suggeriscono che essa rappresenti solo una parte del problema. Ci si sta infatti spostando verso una comprensione multifattoriale dell’Alzheimer e si stanno aprendo nuovi e promettenti filoni di ricerca.

In particolare, si è scoperto che i processi neuroinfiammatori potrebbero essere degli elementi chiave nella patogenesi della malattia di Alzheimer. La microglia, una famiglia di cellule del sistema nervoso centrale, svolge un ruolo chiave in questo contesto. Essa agisce come una sorta di guardia, monitorando costantemente il cervello. Quando la microglia percepisce minacce, come danni ai neuroni o accumulo di proteine anomale, si attiva e avvia una risposta infiammatoria per cercare di contenere il problema. Studi recenti suggeriscono che l’attivazione cronica della microglia e la conseguente cascata infiammatoria possano contribuire in modo importante alla neurodegenerazione, operando in modo indipendente o in sinergia con i meccanismi legati all’amiloide. Questo fenomeno sta diventando un punto focale nella ricerca, suggerendo che l’infiammazione cerebrale potrebbe essere un altro elemento cruciale da considerare per comprendere l’Alzheimer.

Parallelamente, sta emergendo un approccio terapeutico multimodale, ispirato ai progressi ottenuti in oncologia. Infatti, oltre all’amiloide anche la proteina tau iperfosforilata e le alterazioni del metabolismo energetico cerebrale rappresentano potenziali bersagli per interventi integrati.

La prevenzione dell’Alzheimer

Nel contesto dell’evoluzione della ricerca sull’Alzheimer, la prevenzione sta assumendo un ruolo centrale. Mentre continuano gli sforzi per sviluppare nuovi trattamenti, ci sono sempre più evidenze secondo le quali si può ridurre significativamente il rischio di Alzheimer intervenendo sui fattori modificabili, cioè quelli che non dipendono dalla nostra genetica ma che possono essere influenzati dalle nostre azioni.
In particolare un importante studio ha identificato 12 fattori di rischio che, complessivamente, contribuiscono al 40% circa di tutti i casi di demenza. Questi fattori sono:

  • Esposizione cronica a inquinanti atmosferici
  • Limitata scolarizzazione e stimolazione cognitiva
  • Isolamento sociale
  • Sedentarietà
  • Ipertensione arteriosa
  • Tabagismo
  • Obesità
  • Alterazioni del metabolismo glucidico
  • Ipoacusia (perdita dell’udito)
  • Sintomatologia depressiva
  • Consumo eccessivo di alcol
  • Storia di traumatismi cranici

Per prevenire o ritardare il più possibile l’insorgenza l’Alzheimer, oltre all’adozione di stili di vita sani, vediamo che emerge il concetto di “riserva cognitiva“: è dimostrato infatti che stimolare continuamente il cervello ci può proteggere dai processi neurodegenerativi.

Consideriamo un esempio concreto: due signore di 75 anni, Silvia e Giovanna, entrambe con simili predisposizioni genetiche. Silvia ha lavorato come insegnante di inglese, suona il pianoforte, legge molto e partecipa mensilmente a un gruppo di lettura. Nel tempo libero risolve cruciverba e sudoku, va a teatro e mantiene rapporti sociali attivi. Giovanna, invece, dopo il pensionamento ha ridotto progressivamente le uscite da casa, si è impigrita, trascorre molto tempo davanti alla televisione e sta spesso sola.

Gli studi sulla riserva cognitiva suggeriscono che se entrambe iniziassero a manifestare i primi segni di declino cognitivo, Silvia avrebbe maggiori probabilità di mantenere più a lungo le funzioni cognitive integre, compensando meglio il danno neuronale e ritardando l’esordio dei sintomi di demenza. Infatti, attività che richiedono impegno cognitivo complesso, come imparare una lingua straniera, suonare uno strumento musicale o ragionare in modo strategico, sembrano promuovere meccanismi che ritardano l’espressione clinica della patologia. Anche mantenere rapporti sociali e partecipare attivamente alla vita della comunità sono associati a una significativa riduzione del rischio di declino cognitivo.

Il percorso della ricerca sull’Alzheimer ci mostra che il progresso scientifico non segue una traiettoria lineare, ma si sviluppa attraverso cicli di scoperta, critica e riformulazione. È proprio in questa capacità di autocorrezione e adattamento che risiede la forza del metodo scientifico, alimentando la speranza di una comprensione più profonda e di interventi più efficaci per l’Alzheimer negli anni a venire.

Per approfondire l’argomento vi invitiamo a seguire il dialogo sull’Alzheimer introdotto dalla Dr.ssa Carmela Rinaldi e moderato dalla Dott.ssa Fabiola De Marchi, con la partecipazione della giornalista scientifica Agnese Codignola, autrice del libro “Alzheimer Spa. Storie di errori, omissioni dietro la cura che non c’è” e del neurologo Dott. Giacomo Tondo.

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