La teoria dell’attaccamento ha messo in evidenza l’impatto prodotto dalla relazione che si costruisce tra un bambino e la figura di accudimento sulle relazioni successive. Può essere un modello utile anche per indagare i rapporti interpersonali dell’anziano? Ne abbiamo parlato con Cristina Meini, professore associato di Filosofia della mente presso l’Università del Piemonte Orientale, ed Emiliano Loria, collaboratore presso il Dipartimento di Neuroscienze Umane presso l’Università La Sapienza di Roma
Cosa si intende in psicologia con teoria dell’attaccamento?
Secondo lo psicanalista inglese John Bowlby, al quale si deve – insieme con la psicologa sua allieva Mary Ainsworth – la formulazione della teoria, l’attaccamento è quel vincolo profondo e innato che si instaura tra il bambino e la sua principale figura di accudimento (abitualmente la madre), un vincolo che nasce dal bisogno di sicurezza del bambino. Si tratta di un legame che, da un punto di vista evolutivo, è fondamentale per garantire la sopravvivenza fisica e psichica del bambino. Per questo la figura di accudimento riveste un importante significato esistenziale. Il tipo di risposte che questa ha fornito ai bisogni di sicurezza e di protezione e la relazione che si è instaurata diventerà un modello per tutte le relazioni future del bambino.
Un attaccamento sicuro sperimentato nell’infanzia permette la creazione di una buona autostima in età adulta: la persona ritiene se stessa degna di essere amata e capace di intessere relazioni intime con l’altro pur mantenendo la proprio autonomia. Al contrario, quando la figura di attaccamento non è in grado di prendersi cura del bambino e non risponde in modo idoneo ai suoi bisogni, ovvero quando il caregiver risulta costantemente inaccessibile fisicamente e/o psicologicamente al bambino, o addirittura minaccioso per lui, quest’ultimo interiorizzerà un modello di attaccamento insicuro, dal momento che percepirà il comportamento del caregiver come un abbandono costante, una dolorosa separazione. Per rispondere a tale separazione, allora, dovrà attuare strategie per riguadagnare vicinanza col caregiver, strategie comportamentali che inevitabilmente risulteranno disorganizzate e fonte di instabilità.
Si può parlare di attaccamento anche in altre fasi della vita oltre che nella prima infanzia?
La teoria dell’attaccamento, da una fase iniziale centrata principalmente sull’osservazione dei comportamenti del bambino e del caregiver, si è ridefinita come sistema globale che interessa tutte le fasi della vita. In questa prospettiva, le iniziali esperienze di attaccamento influenzano profondamente la capacità futura dell’individuo di relazionarsi con sé e con gli altri, condizionando lo sviluppo della personalità.
In che modo la relazione sperimentata nell’infanzia influenza quelle successive?
Perno del sistema di attaccamento sono i Modelli Operativi Interni (MOI o Internal Working Models): i diversi episodi relazionali vengono memorizzati, rielaborati, categorizzati in rappresentazioni relativamente stabili (ma non rigide) di sé e delle figure di accudimento. I MOI rappresentano un catalogo e una mappa per interpretare le esperienze relazionali successive, per fare ipotesi su come si comporterà l’altro, per definire come stare nella relazione (“modelli di sé-con-l’altro”, li ha definiti Liotti).
Qual è il ruolo dei MOI in età adulta?
Nelle fasi evolutive della crescita e dell’invecchiamento, il concetto di sicurezza cambia, passando dalla ricerca della prossimità fisica dell’infanzia, a sofisticate forme di relazione e di rappresentazione dell’altro (genitore, coniuge, famigliari, ecc.).
In età adulta, i MOI hanno lo scopo di creare nuovi significati personali a ricordi passati, si riorganizzano in funzione delle nuove esperienze relazionali, in un processo indispensabile per la costruzione di un modello del sé coerente attraverso il percorso di crescita.
Gli schemi di attaccamento quindi sono modificabili nel corso della vita?
Sì, gli effetti della crescita individuale portano ampie possibilità di cambiamento. Le linee di sviluppo della personalità che le modalità di attaccamento tracciano non sono lineari, né tanto meno determinate. Le persone dipendono dagli altri per tutta la vita, questo è quanto rimarcato dalla teoria dell’attaccamento e, a mano a mano che lo stadio di sviluppo e le circostanze cambiano, si includeranno nuove figure di attaccamento e si sostituiranno quelle passate. Le esperienze di attaccamento nella prima infanzia influenzano lo sviluppo degli schemi emotivi, l’immaginazione ed altre abilità cognitive implicate nella regolazione affettiva. Tuttavia, pur tendendo alla stabilità nel tempo, gli schemi di attaccamento possono subire cambiamenti se l’ambiente famigliare, affettivo, professionale cambia.
Che cosa può dirci la teoria dell’attaccamento rispetto alla relazione tra genitori anziani e figli?
Particolare attenzione negli ultimi anni è stata dedicata al ruolo dell’attaccamento nel mantenimento del comportamento assistenziale degli adulti. L’idea che l’attaccamento e la cura dell’altro, declinata in età adulta nei termini di assistenza, siano strettamente correlati ha radici proprio nelle prime formulazioni della teoria dell’attaccamento. Si ritiene che i Modelli Operativi Interni siano fortemente correlati a motivazioni e comportamenti legati all’assistenza dei genitori. Gli adulti possono sentirsi minacciati dalla crescente vulnerabilità dei genitori. Il desiderio di proteggere il proprio genitore (ritardando l’imminente perdita di una figura di attaccamento chiave) fornisce la motivazione per il comportamento di assistenza e di cura. Tra adulto e genitore anziano si ripresenta, allora, il rapporto asimmetrico di attaccamento, ma questa volta rovesciato, per cui i figli diventano i genitori dei propri genitori.
In che modo lo stile di attaccamento influenza l’anziano nell’affrontare le difficoltà dell’invecchiamento?
Nell’anziano, la possibilità di continuare a sperimentare relazioni affettive significative e la qualità di queste relazioni sono ingredienti indispensabili sia per mantenere sicurezza di sé e stabilità emotiva sia per affrontare i possibili traumi del decadimento psico-fisico. La relazione con le proprie figure di riferimento sperimentata nel passato condiziona il modo in cui l’anziano si rende disponibile verso il tipo di cura che dovrà ricevere. Anziani con una storia di attaccamento insicura sembrano essere meno inclini a fidarsi di chi vorrà prendersi cura di loro. Perdita di autonomia, paura della sofferenza, paura della morte… questi stati emotivi sono il movente che attiva il bisogno di vicinanza e protezione, innescando nel caregiver comportamenti di accudimento.
Come cambia la relazione genitore-figlio quando i figli diventano caregiver?
Il trauma del decadimento psico-fisico colpisce non solo l’anziano, ma coinvolge e stravolge tutta la famiglia, in particolare i figli, che si trovano a dover gestire un vero e proprio ribaltamento di ruoli. Il figlio può essere assimilato a «una vittima secondaria» del genitore assistito. Un figlio può trovarsi impreparato e spaventato davanti al nuovo ruolo di caregiver e alle nuove responsabilità, che richiedono sacrifici e rinunce ai propri spazi e al proprio tempo; così se si sceglie per se stessi si è afflitti da sensi di colpa; ma se si sceglie in base alle necessità dell’anziano malato possono svilupparsi sentimenti di rabbia, o risentimenti. Ecco allora che un caregiver con attaccamento sicuro riesce a essere emotivamente più disponibile e a diminuire la sensazione soggettiva di onere (burden in letteratura). Un caregiver sicuro, di fronte a cambiamenti importanti (malattie come la demenza, ad esempio), ha una migliore capacità di adattamento (coping) a situazioni di stress.
La solitudine dell’anziano è correlata agli stili di attaccamento? In che modo?
Spesso la mancanza di relazioni interpersonali significative in età avanzata comporta una condizione di solitudine, che alcuni studi mostrano essere correlata a particolari stili di attaccamento. Non è il semplice ‘stare da soli’ un fattore indicativo o predittivo della solitudine. Piuttosto, sono le aspettative su se stessi e sugli altri a condizionare la percezione della solitudine. Tali aspettative sono generate proprio dalle modalità di attaccamento, ovvero sono il risultato della funzionalità dei MOI.
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