L’emergenza sanitaria ha riportato al centro del dibattito pubblico il tema delle discriminazioni verso gli anziani, la minoranza più significativa del nostro Paese.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) oltre il 95% dei decessi registrati in Europa a causa del nuovo coronavirus ha riguardato persone di età superiore ai 60 anni.

A subire le conseguenze peggiori sono soprattutto soggetti anziani fragili, già fisiologicamente compromessi per la coesistenza di patologie pregresse quali il diabete, l’ipertensione e le malattie cardiovascolari.

Questi fatti sono stati recepiti con un certo sollievo dalla parte giovane, sana e produttiva dei Paesi sviluppati. Il ritornello del “virus che colpisce solo i vecchi” indica il sentimento di rassicurazione che accompagna l’identificazione della terza età con una fase di declino fisico, cognitivo e sociale. Chi abbraccia questa prospettiva ritiene giusto che gli effetti più gravi del virus ricadano sugli anziani, già titolari di una “quantità di vita” sufficiente e ormai gravosi per il sistema sociale ed economico.

Questa è solo la riattivazione più recente di un fenomeno conosciuto come “ageismo”, termine coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Neil Butler per indicare l’insieme dei pregiudizi, degli stereotipi e delle discriminazioni basati sull’età.

Il concetto non si riferisce solo all’ultima parte della vita ma indica, in generale, l’atteggiamento sprezzante e discriminatorio di soggetti appartenenti a una fascia d’età verso soggetti appartenenti a un’altra fascia d’età.

Nelle società contemporanee, informate dal mito della giovinezza e dallo stigma della vecchiaia, è intuitivo che l’ageismo finisca per riferirsi soprattutto a chi è in là con gli anni. I vecchi sono considerati lenti, incapaci, inefficienti, mancanti: come osserva Butler, “la condizione anziana viene quasi negata da una società a impronta giovanilistica con una forma di spregio mass mediatico dell’immagine anziana, ridotta a caricatura fuorviante e discriminante, o peggio a sole immagini deteriori”.

Da un lato, i comportamenti ageisti hanno un’origine emotiva e psicologica: l’ostilità e la ripugnanza verso la vecchiaia deriverebbero dalla paura della nostra stessa mortalità.
Dall’altro lato, sono un effetto collaterale del progresso medico: il successo della medicina nel trattare le malattie le ha rese croniche, caratterizzate cioè da un declino progressivo ma lento. Ha determinato, inoltre, un incremento della multimorbilità, la coesistenza di più patologie o condizioni cliniche in un medesimo individuo.
È cresciuto quindi il numero di utenti da assistere e con esso la quantità di risorse da convogliare verso la popolazione anziana fragile o con malattie croniche, che viene a rappresentare un onere per i singoli e per il sistema.

La difficoltà di accettare “il peso della vecchiaia” si sedimenta in pratiche sociali, linguistiche, lavorative e manageriali. Si pensi alla difficoltà di venir assunti dopo i 45 anni, ai maltrattamenti nelle case di riposo, a metafore di uso comune come quella del “rottamare gli anziani”, al fatto che un over-60 su 6 subisce truffe, abusi finanziari, fisici e psicologici.

L’OMS ritiene che tra le varie tipologie di discriminazione l’ageismo sia la più frequente, persistente, normalizzata e socialmente accettata. In effetti la sua tematizzazione nel dibattito pubblico e mediatico rimane marginale, emergendo più come notizia sporadica – in occasione di fatti specifici – che come questione in sé.

La recente pandemia, per esempio, ha riportato al centro gli anziani, più vulnerabili agli esiti nefasti del Covid. Uno studio italiano, condotto da Diversity Lab e dall’Università di Pavia, ha evidenziato che da gennaio ad aprile 2020 la copertura mediatica per le 5 aree della diversity (Generazioni, Generi, Disabilità, Etnia, LGBT+) è crollata drasticamente, eccezion fatta per gli over-60.

Il racconto, tuttavia, si è concentrato sul conto dei decessi e sulla questione dell’accesso alle terapie intensive, con riferimenti serrati a numeri, parametri e statistiche. Molto poco si è detto, invece, sulla condizione dei tanti ultrasettantenni isolati e dimenticati.

Non è da escludere che l’attenzione agli anziani abbia generato un certo risentimento nei giovani e nelle categorie sociali più trascurate negli ultimi mesi, acutizzando il gap generazionale. Secondo una ricerca del Censis, oggi in Italia il 49,3% dei millennials (i nati tra il 1980 e il 1995) ritiene giusto dare priorità ai giovani nelle situazioni di emergenza, mentre il 35% è convinto che la quota di spesa pubblica dedicata alla terza età sia troppo ampia.

 

Gli effetti dell’ageismo sulla salute degli anziani

Oltre ad avvalorare stereotipi e pregiudizi, l’ageismo incide negativamente dal punto di vista psicologico, comportamentale e fisiologico.

Innanzitutto additare come fragile qualcuno che non si sente tale, predisponendo per lui misure di tutela e prevenzione ad hoc, può essere recepito come azione paternalistica immotivata, intrusiva e offensiva.

Soprattutto, l’etichetta della vulnerabilità può provocare quella stessa vulnerabilità, inducendo nell’anziano sentimenti di inutilità e frustrazione deleteri per la sua salute.

Il rischio più grande che una vittima di ageismo corre è del tipo “profezia che si autoavvera”: la consapevolezza di essere visto in un certo modo dagli altri (ageismo etero-diretto) potrebbe indurre l’anziano ad adottare l’immagine negativa (ageismo auto-diretto) e a condurre stili di vita passivi e sedentari aderenti a quel quadro. Potrebbe, per esempio, sviluppare un sentimento di rassegnazione per la vita, rinunciando ai comportamenti preventivi e all’aderenza terapeutica.

Tutto ciò comporta ripercussioni economiche non indifferenti. Uno studio condotto negli Stati Uniti su persone di età superiore ai 60 anni ha stimato che l’ageismo percepito in un anno dagli over-60 è la concausa di 17 milioni di casi di malattia, fra cui patologie cardiovascolari, respiratorie a metaboliche, con una spesa annuale di 63 miliardi di dollari.
D’altra parte, gli over-65 in pensione e in salute continuano ad assolvere importanti funzioni produttive e sociali, per esempio attraverso il sostegno economico ai figli, l’assistenza ai nipoti, il lavoro non retribuito, il volontariato.

Tanto per il benessere del singolo quanto per l’equilibrio sociale sarebbero auspicabili una rivalutazione e un cambiamento nel modo di concettualizzare l’età avanzata, a partire da una raffigurazione dell’anziano più complessa e realistica.
Un fatto di cui si dovrebbe tenere conto è che con l’aumento dell’aspettativa di vita la categoria degli anziani ha cambiato profilo, raccogliendo persone di una fascia di età estremamente ampia e diversificata nelle caratteristiche, in alcuni casi molto distanti dall’immagine stereotipata.

Photo by Bruno Martins on Unsplash

 

Bibliografia

● World Health Organization, 2015, World report on Ageing And Health
● Matteo Cesari, Marco Proietti, COVID-19 in Italy: Ageism and Decision Making in a Pandemic, 2020
● David Oliver: What the pandemic measures reveal about ageism BMJ 2020;369:m1545
● Marques, S.; Mariano, J.; Mendonça, J.; De Tavernier, W.; Hess, M.; Naegele, L.; Peixeiro, F.; Martins, D. Determinants of Ageism against Older Adults: A Systematic Review. Int. J. Environ. Res. Public Health 2020, 17, 2560
● Becca R Levy, PhD, Martin D Slade, MPH, E-Shien Chang, MA, Sneha Kannoth, MPH, Shi-Yi Wang, MD, PhD, Ageism Amplifies Cost and Prevalence of Health Conditions, The Gerontologist, Volume 60, Issue 1, February 2020, Pages 174–181
● La silver economy e le sue conseguenze nella società post Covid-19, rapporto Censis, 24 giugno 2020

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