Intervista alla Dr.ssa Edit Shahi – dirigente medico della Direzione medica di presidio di ospedale della Carità di Novara e referente per la Medicina di genere

 

Che cosa si intende per medicina di genere?

La medicina di genere rappresenta un approccio innovativo nell’ambito sanitario: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la definisce come lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (determinate dal sesso) e dei fattori socio-economici e culturali (determinati dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.

Per sgombrare subito il campo da interpretazioni errate, ci può dire che cosa non è la medicina di genere?

Volentieri, perché è un concetto spesso confuso: possiamo dire che non è una nuova specialità della Medicina, né una disciplina che si focalizza sulla salute delle donne. È un approccio che pone massima attenzione al modo in cui le differenze biologiche, socioeconomiche e culturali influenzano lo stato di salute e di malattia delle persone. Le differenze biologiche sono legate al sesso, che l’OMS definisce come l’insieme delle caratteristiche genetiche (cromosomi X e Y), biologiche e fisiologiche che determinano i diversi fenotipi.
Il “genere” è invece la risultante dell’azione di molti fattori (stato socio-economico, reddito, livello culturale, ambiente, ecc.) che contribuiscono a determinare comportamenti, azioni, ruoli diversi che possono cambiare nel tempo e nel contesto sociale in cui queste caratteristiche si costruiscono.
Quindi, mentre il sesso è biologicamente determinato, l’identità di genere risente delle influenze culturali e sociali del contesto in cui si vive.

Da quando si è iniziato a parlare di Medicina di genere?

La nascita della Medicina di genere viene fatta risalire a un editoriale scritto da Bernardine Healy dei National Institutes of Health di Bethesda (USA) nel 1991 e pubblicato sul “New England Journal of Medicine” (NEJM). L’articolo si intitola “The Yentl syndrome”, in omaggio all’eroina di un racconto di Isaac Singer costretta a travestirsi da uomo per poter studiare il Talmud. Proprio come la protagonista Yentl è costretta a conformarsi all’immagine maschile per poter coltivare i propri interessi, così la donna deve “travestirsi” da uomo affinché la ricerca medica e la pratica clinica riconoscano le sue differenze biologiche e fisiologiche rispetto all’uomo. A riprova, l’autrice porta i dati di come la maggior parte degli studi clinici venga condotta su maschi, mentre i risultati ottenuti siano applicati indiscriminatamente a entrambi i sessi. Questo approccio ignora le differenze fondamentali che possono influenzare l’efficacia dei trattamenti, la presentazione dei sintomi e l’esito delle malattie, contribuendo a disuguaglianze significative nella qualità dell’assistenza sanitaria e negli outcome clinici tra uomini e donne.

Se non sbaglio, durante la pandemia da Covid-19 è emerso proprio il ruolo delle differenze di genere nell’influenzare la risposta all’infezione virale.

I dati raccolti durante la pandemia hanno dimostrato come non ci fosse una malattia standard, ma tante forme influenzate sia da differenze di sesso che di genere. Il sesso ha influito, per esempio, sulla risposta al virus, la facilità con cui si riproduceva e la produzione di anticorpi, mentre il genere sulla maggiore mortalità negli uomini – per via di comportamenti rischiosi come la maggiore abitudine al fumo e minore tasso di lavaggio delle mani – nonostante le donne fossero maggiormente esposte, in quanto hanno maggiormente ruoli di caregivers in famiglia o in quanto costituiscono la maggioranza degli operatori sanitari. Manifestazioni importanti di disparità di genere sono emerse non solo nelle malattie infettive, ma in tutti i principali gruppi di patologie quali tumori, malattie del sistema cardiovascolare, malattie reumatiche e, in particolare, nelle malattie autoimmuni.

Ci può fare qualche esempio di malattie in cui storicamente ha pesato la mancata considerazione delle differenze di genere?

Un esempio emblematico è rappresentato dalla gestione dell’infarto miocardico nelle donne. Tradizionalmente, la ricerca cardiologica ha focalizzato l’attenzione sugli uomini, portando a un’interpretazione dei sintomi dell’infarto che non sempre si applica alle donne. Di conseguenza, i sintomi atipici più frequenti nelle donne, come nausea, affaticamento insolito, dolore allo stomaco, dolore al braccio o alla schiena, possono non essere immediatamente riconosciuti come segnali di un infarto. Questa differenza di manifestazione sintomatica può portare a ritardi nella diagnosi e nel trattamento dell’infarto nelle donne, aumentando il rischio di complicanze o di mortalità.

Al contrario, l’osteoporosi è tradizionalmente considerata una malattia che colpisce prevalentemente le donne, soprattutto dopo la menopausa per la diminuzione dei livelli di estrogeni, e che tende a essere trascurata o sotto-diagnosticata negli uomini. Ma anche gli uomini sono a rischio di sviluppare l’osteoporosi, soprattutto con l’avanzare dell’età e la presenza di fattori come bassi livelli di testosterone, uso prolungato di determinati farmaci o a causa di altre patologie. La mancanza di consapevolezza e di screening adeguati porta spesso a ritardi nella diagnosi e nel trattamento dell’osteoporosi negli uomini, aumentando il rischio di fratture che compromettono significativamente la qualità della vita.

Ecco restiamo sull’osteoporosi: in pratica come cambia l’approccio secondo la medicina di genere?

In primo luogo viene sottolineata la necessità di valutare i fattori di rischio specifici del genere, quindi si raccomanda di promuovere campagne di sensibilizzazione mirate sia agli uomini che alle donne e di adottare linee guida per lo screening e il trattamento che tengano conto delle differenze di genere. In questo modo, si possono implementare strategie preventive più efficaci e garantire che tutti gli individui, indipendentemente dal genere, ricevano una diagnosi tempestiva e un trattamento adeguato per l’osteoporosi.

Al di fuori del campo medico, c’è stato un riconoscimento dell’importanza del genere come fattore critico della salute?

A livello internazionale, un momento chiave in questo processo è stata la Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne, tenutasi a Pechino nel 1995. Questo evento globale, organizzato dalle Nazioni Unite, ha rappresentato un punto di svolta nel riconoscimento dei diritti delle donne e nella promozione dell’uguaglianza di genere. Durante la conferenza di Pechino, i Paesi partecipanti sono stati invitati ad adottare politiche e programmi che considerassero le specificità di genere nelle questioni di salute, riconoscendo che le disuguaglianze di genere influenzano significativamente la prevenzione, il trattamento delle malattie e l’accesso alle cure.
Abbiamo visto le ricadute positive dell’inclusione della prospettiva di genere sulla qualità dell’assistenza sanitaria, ma mi chiedo se potrebbe essere considerata anche come uno strumento per combattere le disuguaglianze di salute.
Sono convinta che portare l’attenzione alle differenze di genere nella ricerca, nella formazione, nella pratica clinica e nella comunicazione ci consentirebbe di avanzare verso un sistema sanitario che valorizzi e rispetti la diversità umana, indipendentemente dal proprio sesso, background culturale, situazione socio-economica o luogo di residenza.

Un’ultima domanda: com’è composto il Gruppo di lavoro sulla Medicina di genere da lei coordinato?

E’ vero – sorride – siamo in stragrande maggioranza donne, ma ci sono anche 4 professionisti uomini.
Noi comunque andiamo avanti, contando sull’appoggio delle nuove generazioni, che sono molto più sensibili al tema.

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